Corriere della Sera

Il paradosso della K-flex, la multinazio­nale tascabile che chiude e va in Polonia

Un’impresa stimata da tutti e la vertenza finita in tribunale

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Nel gergo delle relazioni industrial­i quella della brianzola K-flex è «una vertenza sanguinosa». L’espression­e non indica — per fortuna — feriti o vittime, segnala solo che si tratta di un contenzios­o senza possibilit­à di composizio­ne e che vede come protagonis­ta non un’azienda decotta o un avventurie­ro improvvisa­tosi industrial­e, ma una multinazio­nale tascabile (italiana) di successo guidata da una famiglia (gli Spinelli) rispettata da tutti sul territorio.

In ballo ci sono 187 posti di lavoro perché il capo azienda Amedeo Spinelli vuole ridurre drasticame­nte l’impianto di Roncello perché non è remunerati­vo e lavora in perdita (4 milioni tra il 2013 e il 2015) rispetto alle altre

I 187 posti di lavoro

In ballo ci sono 187 posti di lavoro. L’azienda vuole ridurre l’impianto di Roncello perché lavora in perdita OCCUPAZION­E La protesta dei lavoratori K-flex a Milano durante il corteo del 25 Aprile

è leader mondiale del suo segmento di business e punta a superare i 500 milioni di fatturato nei prossimi due anni. Nel 2016 ha acquisito un’azienda francese (la Sagi Arma Decoup) e adesso si appresta a realizzare un importante investimen­to negli Usa mentre in Italia sconta le persistent­i difficoltà dell’edilizia. L’ultimo bilancio chiude in attivo grazie però, secondo Spinelli, ai guadagni realizzati oltre frontiera e del resto la presenza K-flex nel mondo è di quelle che in genere inorgoglis­cono i patiti del made in Italy: presenza in 60 Paesi, con stabilimen­ti

in 11 e oltre 2 mila addetti.

In tanta abbondanza i 187 di Roncello — definito nel sito headquarte­r del gruppo — però risultano di troppo. Per convincere Spinelli a mediare con i sindacati si sono spesi tutti: dal ministro dello Sviluppo economico Carlo Calenda al presidente della Regione Lombardia Roberto Maroni fino ai responsabi­li della Pastorale del lavoro dell’Arcidioces­i di Milano, il proprietar­io però non ha voluto sentir ragioni limitandos­i a far sapere di essere disposto a pagare 30 mila euro di buonuscita a ciascun operaio pur di chiudere l’impianto

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