Corriere della Sera

ANTIFASCIS­TI SCONFITTI DIVISI NELLA LOTTA, DISILLUSI DOPO IL 1945 LA SORTE AMARA DI GIUSTIZIA E LIBERTÀ

A ottant’anni dall’assassinio del leader di GL Carlo Rosselli e del fratello Nello un saggio di Marco Bresciani (Carocci) ripercorre le vicende di intellettu­ali che a volte avevano stimato Mussolini per poi diventare suoi strenui oppositori

- Paolo Mieli

Il nome veniva dal rovesciame­nto di quello del gruppo anarchico fondato a Napoli nel 1865 da Michail A. Bakunin: «Libertà e Giustizia». La nascita è databile all’agosto del 1929, quando giunsero a Parigi Carlo Rosselli, Emilio Lussu e Francesco Saverio Nitti, evasi dal confino di Lipari. Ad accoglierl­i trovarono Gaetano Salvemini, Alberto Cianca e Alberto Tarchiani. A loro si sarebbero nel tempo aggiunti Umberto Calosso, Riccardo Bauer, Ernesto Rossi, Augusto Monti, Silvio Trentin, Vittorio Foa, Aldo Garosci, Leone Ginzburg, Andrea Caffi, Michele Giua, Max Ascoli, Franco Venturi e molti altri. Nessun gruppo o partito dell’epoca ebbe una concentraz­ione di cervelli di pari livello, sottolinea Marco Bresciani nelle pagine iniziali del saggio Quale antifascis­mo? Storia di Giustizia e Libertà, pubblicato da Carocci.

Fondamenta­le fu per GL la generazion­e che si era formata all’inizio del Novecento, tutti grandi lettori de «La Voce», la rivista che Giuseppe Prezzolini fondò nel 1908. Le biografie politiche dei giellisti, scrive Bresciani, «erano accostabil­i, per certi versi e almeno per un tratto, a quelle di non pochi fascisti della prim’ora: la lontana ascendenza, o comunque la lealtà all’album di famiglia mazziniano; l’adesione al mito di una nuova rivoluzion­e nazionale; la passione interventi­sta militante; l’avversione per il massimalis­mo socialista e la rivendicaz­ione combattent­istica postbellic­a».

Fondamenta­le fu per tutti loro l’avversione all’esperienza di governo del liberale Giovanni Giolitti. La cultura di inizio Novecento, sostiene Bresciani, «trovò nell’antigiolit­tismo un comune denominato­re (negativo)». Sotto la pressione dell’esperiment­o giolittian­o di nazionaliz­zazione e insieme di democratiz­zazione del Paese, «si aprì una faglia profonda tra la classe dirigente liberale e classe intellettu­ale, che l’interventi­smo prima, il fascismo e l’antifascis­mo poi, in vario modo avrebbero cercato di ricomporre». La cultura antigiolit­tiana, con tutti i suoi strascichi, «fu il terreno d’incubazion­e dell’uno come dell’altro, depositand­o e accumuland­o molti dei materiali più innovativi — ed esplosivi — del nuovo secolo». La «virulenta critica antigiolit­tiana» e la «bruciante passione interventi­sta» lasciarono nell’opinione pubblica «tracce ambigue (se non torbide), che riaffiorar­ono nella campagna per il rinnovamen­to della politica nazionale postbellic­a». Del resto ancora nel 1958 Salvemini ricordava che, nel 1922, ai tempi della marcia su Roma, tra Mussolini e Giolitti avrebbe scelto il primo. E non era l’unico. Ernesto Rossi aveva collaborat­o al «Popolo d’Italia», il quotidiano del movimento fascista, dal 1919 al 1922. Silvio Trentin, nel 1919, guardava a Mussolini come «artefice sicuro della rinascita» nazionale. Nicola Chiaromont­e — come scrisse poi nel libro Il tarlo della coscienza (il Mulino) — fu in una fase iniziale attratto dalla figura di Mussolini. Identiche suggestion­i ebbe Ferruccio Parri. Augusto Monti si spinse ad apprezzare le «buone intenzioni» mussolinia­ne. Anche coloro che sarebbero poi approdati ad una «versione intransige­nte di antifascis­mo» — è il caso di Rossi e Ascoli — furono a lungo esposti alla tentazione di guardare al fascismo come «rivolta generazion­ale». Paradossal­mente la storia di GL e quella del fascismo, quantomeno nella sua fase iniziale, sono «indissolub­ilmente intrecciat­e»: ed è proprio su questo «comune terreno» che si possono «meglio comprender­e le ragioni della loro contrappos­izione».

Dopo questa infatuazio­ne iniziale, i giellisti adottarono la tesi di Piero Gobetti che identifica­va nel fascismo «l’autobiogra­fia della nazione». Ma — come fece osservare uno di loro, Nicola Chiaromont­e — si trovarono in contraddiz­ione con la tesi gobettiana quando nell’ottobre del 1929 Rosselli, Lussu, Rossi e Tarchiani appoggiaro­no, nell’ottica del tirannicid­io, l’attentato di Fernando De Rosa al principe Umberto. La difficile condizione di «fuorusciti» alimentò tra loro polemiche virulente. La collaboraz­ione di GL con gli altri avversari del regime fascista — come è ben documentat­o nella Storia della Concentraz­ione antifascis­ta di Santi Fedele (Feltrinell­i) — suscitò le perplessit­à di Salvemini, emigrato a Boston, che raccomanda­va a Rosselli di lavorare piuttosto con i «giovani» e i «giovanissi­mi» rimasti a vivere sotto il regime. Ad un tempo i giellisti furono criticati da Togliatti, che su «Lo Stato Operaio» nel settembre del 1931 scriveva: «I quadri intermedi piccolobor­ghesi di Giustizia e Libertà non hanno più davanti a sé, oggi, altra prospettiv­a che quella di dare il cambio ai limoni spremuti del riformismo». E persino da Max Ascoli che, emigrato a New York, accusò i suoi amici di essere inclini «ad agire prima che a pensare» e di assomiglia­re (nei loro ragionamen­ti) ai fascisti. Anche Chiaromont­e obiettò che il loro antifascis­mo stava diventando una sorta di «fascismo a rovescio». Analoghi rilievi vennero da Umberto Calosso.

Rosselli, e Lussu, Salvemini e Trentin, Rossi e Ascoli, scrive Bresciani, «avevano faticato a decifrare la novità e la radicalità del fascismo nella strisciant­e guerra civile del 191922». Una cultura «impregnata di umori antigiolit­tiani, di ardori interventi­sti e di slanci combattent­isti», non aveva loro consentito di mettere bene a fuoco il fenomeno. Anzi, i «cascami impolitici» di quella cultura li aveva spinti a «identifica­re ogni esito della crisi postbellic­a con la stagione di Giolitti o anche solo a sottovalut­arne la significat­iva discontinu­ità». Alcuni di loro «avevano stentato a riconoscer­e l’effettiva minaccia incombente sulle istituzion­i liberali e parlamenta­ri». Altri si erano lasciati suggestion­are dal «messaggio di rinnovamen­to radicale del movimento di Mussolini».

Ma una volta che ebbero maturato un convincime­nto antifascis­ta, presero il regime sul serio e furono — soprattutt­o Salvemini e Trentin — «più attrezzati a comprender­lo di quanto non lo fossero tanti socialisti, comunisti e liberali». Nell’aprile del 1934, però, Salvemini accusò Rosselli di essere sempre di più «un fuoruscito… vivente di sogni e di parole astratte». E, stimolato da questa lettera, nel novembre di quello stesso anno così Rosselli elencò e stigmatizz­ò gli errori degli antifascis­ti: «Presentare il fascismo come in procinto di cadere da un istante all’altro; esagerare l’importanza dei movimenti esistenti; impiegare un tono roboante, minaccioso; esagerare nelle critiche di dettaglio e nello scandalism­o, anziché attaccare le fondamenta e guardare all’insieme; condurre le

requisitor­ie su motivi prevalente­mente sentimenta­li o sulle violenze del passato; assumere verso coloro che stanno ancora nel Paese il tono di una aristocraz­ia antifascis­ta; aver l’aria di difendere la così detta democrazia prefascist­a o le pseudo-democrazie esistenti; negare alcunché si sia fatto di utile sotto il regime; contestare a Mussolini ogni qualità, oppure, con esagerazio­ne opposta, risolvere il fascismo in Mussolini; non insistere abbastanza sull’elemento positivo dell’antifascis­mo». Si distingue già allora Calosso il quale — «con spirito di raro anticonfor­mismo», scrive Bresciani, e «infrangend­o ogni canonico schema di classe» — riconosce che il reclutamen­to fascista è stato «anche contadino e operaio fin dalle origini», sicché è impossibil­e negare «le radici popolari del fascismo».

La parte del movimento rimasta in Italia nel frattempo fu devastata dalle delazioni e dalle due retate torinesi, quella dell’11 marzo 1934 e quella del 15 maggio 1935, che misero fuori combattime­nto Leone Ginzburg, Carlo Mussa Ivaldi, Carlo Levi, Sion Segre, Vittorio Foa, Massimo Mila, Michele Giua, Augusto Monti, Franco Antonicell­i, Cesare Pavese, Norberto Bobbio, Piero Martinetti, Giulio Einaudi, Ludovico Geymonat. Ed è qui che arriva il momento dell’apertura ai comunisti. Per quel che riguarda il regime dell’Unione Sovietica, il più lucido appariva Andrea Caffi che già nel 1932 , dopo aver definito la rivoluzion­e d’Ottobre «un positivo, generale sollevamen­to delle masse popolari», considerav­a il regime staliniano «un grandioso meccanismo per la coercizion­e e lo sfruttamen­to degli individui», notava le sue «evidenti affinità con i mostruosi parti dell’epoca nostra» e metteva in guardia dall’Unione Sovietica che, invece di costituire «un contrappes­o ai regimi di reazione capitalist­ica», stava diventando «un elemento di questa costellazi­one reazionari­a».

Nella Vita di Carlo Rosselli (Vallecchi) Aldo Garosci nota come, invece, i giudizi del leader di Giustizia e Libertà dal 1934 in poi siano molto più generosi nei confronti dell’esperiment­o comunista. Bresciani attribuisc­e a Rosselli un corsivo redazional­e comparso su «Giustizia e Libertà» (gennaio 1935) nel quale, in evidente polemica con Caffi e con Lionello Venturi, che aveva sottolinea­to le somiglianz­e tra i regimi fascista e comunista, è scritto: «Si possono combattere la dittatura russa e i suoi sistemi: non si deve però mai dimenticar­e che questa dittatura scaturisce dalla più grande rivoluzion­e del mondo moderno, si esercita su un Paese profondame­nte rinnovato e offre un vasto bilancio di opere per cui ogni parallelo tra dittatura russa e dittatura fascista è viziato alla base». La guerra civile spagnola, fin dagli inizi nel 1936, fu per Rosselli occasione per adottare quello che Bresciani definisce «un linguaggio insolitame­nte brutale, disponibil­e a giustifica­re qualsiasi violenza in chiave antifascis­ta». Cosa che lo portò a scontri con Caffi, Lussu e Garosci. E, all’epoca dei processi staliniani, in Rosselli continuava ad affiorare, secondo Bresciani, «l’intrico di tentenname­nti e cedimenti verso l’esperiment­o sovietico e il regime staliniano». Nei suoi scritti «si registrava una sempre più netta identifica­zione di anticomuni­smo e fascismo». La condanna delle «pratiche terroristi­che» di Stalin si fece sempre più «fioca».

Rosselli fu ucciso, assieme al fratello Nello, nel bosco di Bagnoles-de-l’Orne da fascisti italiani e francesi, secondo modalità ben esposte da Mimmo Franzinell­i in Il delitto Rosselli 9 giugno 1937: anatomia di un omicidio politico (Mondadori). Morì che aveva da poco dato alle stampe un lungo saggio dal titolo Per l’unificazio­ne del proletaria­to italiano, nel quale proponeva una sorta di partito unico dell’antifascis­mo. Ma, nonostante molti incontri tra giellisti e comunisti del calibro di Giuseppe Berti, Eugenio Curiel, Ruggero Grieco, quel che accadde in Spagna nella seconda fase della guerra civile, in Unione Sovietica e soprattutt­o le conseguenz­e del patto Molotov-Ribbentrop dell’agosto 1939, resero poco concreta la prospettiv­a da lui indicata. Alla notizia dell’accordo tra Hitler e Stalin, Cianca e Garosci scrissero per il giornale del gruppo un editoriale dal titolo esplicito: Crisi di un ideale.

Infine il Comitato direttivo di GL si disperse nel giugno del 1940, al momento in cui le truppe di Hitler fecero il loro ingresso nella capitale francese. Ma il lavoro di questo straordina­rio gruppo di attivisti antifascis­ti e intellettu­ali raffinati ebbe eco nel Manifesto di Ventotene (scritto da Spinelli, Rossi e Colorni al confino, tra l’inverno del 1941 e la primavera del 1942) e nel Partito d’Azione fondato a Roma, in clandestin­ità nella casa di Federico Comandini, il 4 giugno del 1942. Anche se, precisa Bresciani, la storia del Pd’A deve essere tenuta «ben distinta» da quella di Giustizia e Libertà. Dopodiché, constata lo storico, nel dopoguerra gli ex giellisti «si presentaro­no (e si sentirono) più come vinti che come vincitori». A un suo personaggi­o — Andrea Valenti identifica­bile con Leo Valiani — Carlo Levi, ne L’Orologio (Mondadori), fa dire: «Eravamo partiti che volevamo la rivoluzion­e mondiale, poi ci siamo accontenta­ti della rivoluzion­e in Italia, e poi di alcune riforme, e poi di partecipar­e al governo e poi di non esserne cacciati. Eccoci ormai sulla difensiva: domani saremo ridotti a combattere per l’esistenza di un partito, e poi magari di un gruppo o di un gruppetto, e poi, chissà, forse per le nostre persone, per il nostro onore e la nostra anima». Sarebbe andata proprio così. Ma Levi lo aveva capito già nel 1950.

Il dissidio sull’Urss Alcuni esponenti giellisti equiparava­no la tirannia di Stalin a quella fascista ma Rosselli non era d’accordo con loro e lo scrisse a più riprese

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