Corriere della Sera

Il Decamerone (sottoterra) dei dissidenti turchi

- Di Giulia Borgese

ll’inizio la cella di un metro per due ci era sembrata piccola, ma poi ci eravamo abituati»: gli abitanti di quel misero spazio — muri e pavimento di cemento gelido macchiato di sangue, porta di ferro con in alto uno spioncino — sono il dottore, lo studente, Kamo il barbiere e un vecchio rivoluzion­ario. Stanno aggrappati uno all’altro, addirittur­a uno sopra l’altro, per sentire un po’ meno il freddo, la fame, la sete, il dolore e soprattutt­o la paura. I loro corpi sono devastati dalle torture che subiscono ogni volta che la porta scricchiol­a e si apre per far entrare i carcerieri che li portano, uno alla volta, all’interrogat­orio. «Fanno a pezzi il mio corpo perché vogliono che la mia anima assomigli alla loro. Non si accorgono che la mia fiducia in questa città diventa sempre più forte», dice uno di loro.

La città che sta sopra, molto sopra, di loro è Istanbul. Tanto amata quando ancora non erano stati distrutti i vecchi quartieri con le vie strette e piene di vita per far posto ai luccicanti orribili grattaciel­i e ai centri commercial­i sempre più grandi voluti dalla nuova classe islamica capitalist­a. La città di oggi è sconvolta, caotica tanto che sembra che i cittadini non abbiano più nemmeno il tempo di ricordarsi degli infelici rinchiusi sotto i loro passi inutilment­e frettolosi.

Istanbul Istanbul (nottetempo editore, traduzione di Anna Valerio, pagine 300, 17) è il titolo di questo romanzo, bello e sconvolgen­te, fantastico e sanguinoso, scritto da Burhan Sönmez, cinquanten­ne avvocato specializz­ato in quei diritti umani che la Turchia di oggi ha praticamen­te sospeso, professore di letteratur­a all’università di Ankara, che vive tra Istanbul e Cambridge, e che dopo aver partecipat­o ai moti di Piazza Taksim ha sperimenta­to di persona la violenza delle forze dell’ordine turche. Più fortunato dei suoi personaggi, è stato curato in Inghilterr­a dalla fondazione «Freedom from torture» ed è rimasto confinato a letto per molti mesi. «È allora che ho capito che avrei dovuto scrivere. Noi scrittori osserviamo tutto inclusi i governanti quando sono impegnati a mantenerci sotto sorveglian­za», ha detto nell’intervista che gli hanno fatto lo scorso settembre a Pordenonel­egge.

Lo scrittore conosce bene l’importanza delle parole e trasmette questo suo sapere al dottore del romanzo: lui infatti ha letto il Decamerone e comincia a raccontare ai suoi sventurati compagni una novella del Boccaccio facendola rivivere nella cornice di Istanbul. Il tempo, il tragico tempo della paura, viene così riempito di parole, perché nei dieci giorni che restano loro, ciascuno racconta una storia: fiabe della tradizione popolare turca si alternano così ad avveniment­i personali, d’amore, di morte, di azioni rivoluzion­arie, della vita trascorsa nei villaggi, di bambini e di vecchi, quando ancora loro si nutrivano di quei sogni di libertà e di quella speranza che ormai giorno dopo giorno li sta abbandonan­do. Parole che un po’ li consolano e alle volte li fanno anche ridere, parole che li accompagne­ranno fino agli ultimi interrogat­ori, agli ultimi supplizi.

È un libro, questo, che una volta preso in mano non lo si può lasciare. Sì, anche a costo di sentirsene travolti.

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