Corriere della Sera

IL FESTIVAL DI SPOLETO CHE DIMENTICA GIAN CARLO MENOTTI C’

- Di Valerio Cappelli

è lo spettacolo Memorie di Adriana, ovvero Adriana Asti, moglie del direttore artistico del Festival di Spoleto Giorgio Ferrara; ma non c’è alcuna memoria di Gian Carlo Menotti. E ricorre un anniversar­io importante. Infatti sono passati dieci anni dalla morte del fondatore della rassegna. Senza la genialità di un musicista che nel mezzo del nulla (il nulla di una splendida cittadina umbra piena di teatri ma vuota di proposte), realizzò il centro dei talenti più geniali di tutto il mondo, con spettacoli innovativi che solo a Spoleto potevi vedere. Senza scomodare Luchino Visconti, in Italia si sono conosciuti grazie a Spoleto Joshua Bell e Yo Yo Ma, Shirley Verrett e Jessye Norman... Il bello è che Ferrara dice che la sua sfida è stata quella di «riaccender­e il dialogo tra passato e presente, nuove idee e grande memoria». E parlando di un omaggio a Dario Fo recitato in cinese, con acrobati, canti e balli, afferma che «in questo Paese appena muore qualcuno tutti se lo scordano». Ferrara ha vivacizzat­o un festival che era agonizzant­e, nelle mani del figlio adottivo del fondatore. Ma ha cancellato la mission di scoprire nuovi talenti: al loro posto vecchi gloriosi maestri, quasi sempre gli stessi. In programma il 30 giugno c’è il Don Giovanni di Mozart: regia di Giorgio Ferrara, luci di Giorgio Ferrara, drammaturg­ia di Giorgio Ferrara. Non essendo un libero adattament­o, ma l’opera di Mozart così com’è, c’è bisogno di rimettere mano a un capolavoro come il libretto d’opera di Lorenzo Da Ponte? Menotti è diventato il Convitato di pietra, presenza invisibile ma incombente. Gli spoletini lo amano. E il Festival di Spoleto, un feudo senza più gioia e freschezza, aveva il dovere artistico e morale di ricordarlo ( tanto più che il 7 luglio, sotto Festival, è il compleanno di Gian Carlo Menotti). Se non ci fosse stata la sua intuizione artistica, sessant’anni fa, ieri al ministero dei Beni culturali non si sarebbe parlato del Festival dei due Mondi. Su Corriere.it Puoi condivider­e sui social network le analisi dei nostri editoriali­sti e commentato­ri: le trovi su www.corriere.it

CRESCE IL FABBISOGNO D’ACQUA

ra i responsabi­li della cosa pubblica torna a serpeggiar­e, e neppure sottotracc­ia, la contrappos­izione fra «tecnici» e «politici». I primi ritengono di poter riproporre il valore della propria dimensione («quando i problemi sono tecnici…») ed i secondi pensano che comunque bisognerà passare per loro, in quanto ogni decisione è comunque ispirata da opzioni politiche.

Era dall’epoca del governo Monti che tale contrappos­izione non entusiasma­va più l’opinione pubblica, anche perché la intensa leadership di Renzi ha codificato la supremazia della politica ed ha rassicurat­o la gente comune, sempre sospettosa verso i «tecnocrati» che sfruttano le proprie competenze per esercitare un proprio potere. Oggi invece la contrappos­izione ritorna, anche se in forma meno esplosiva che nel passato. Avremo allora per un po’ di tempo qualche mediatica scaramucci­a fra diversific­ate strategie personali, ma poi tutto si illanguidi­rà e tecnici e politici navigheran­no in parallelo nella palude dei comportame­nti quotidiani. E si dimentiche­rà l’essenziale, cioè che il rapporto fra dimensione tecnica e dimensione politica non può essere banalmente duale, ma ha bisogno di sintesi, di competenze cioè capaci di capire e gestire la profonda complessit­à (sempre insieme tecnica e politica) dei problemi da affrontare e risolvere.

Forse vale la pena ricordare che in Italia «c’era una volta» un gruppo di tecnici-politici capaci di gestire la sintesi fra la conoscenza dei fatti e le procedure per decidere su di essi. È stata la generazion­e di Beneduce, l’uomo che seppe fare sintesi complessa per addivenire alle epocali decisioni degli anni 30 (riforma bancaria, creazione dell’Iri e dell’Imi, avvio dello Stato sociale); che silenziosa­mente formò quel gruppo di tecnici-politici che guidò il nostro sviluppo nel secondo dopoguerra (Giordani, Menichella, Saraceno, Mattioli); che ispirò una profession­alità tutta orgogliosa­mente Passato recente La leadership di Renzi ha rassicurat­o la gente comune, sospettosa verso i «tecnocrati»

tecnico politica, libera da supremazie accademich­e e da tentazioni elettorali (primi fra loro Sergio Paronetto e Giorgio Ceriani Sebregondi, poi Guido Carli, Giorgio Ruffolo e Giuliano Amato, Nino Andreatta, ed altri che poi preferiron­o diventare politici a tutto tondo). Se ci si pensa bene, buona parte della migliore classe dirigente degli ultimi ottanta anni è cresciuta sul piano tecnico politico, nell’impegno cioè a presidiare e gestire l’intreccio fra rigore tecnico e discrezion­alità politica.

Stagione irripetibi­le? Forse, visto che ogni generazion­e copre un’epoca e che è inutile indulgere alla nostalgia per un

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