Dal mitico Coppi fino a Scarponi, una favola rosa lunga 100 anni
In un angolo del salotto c’era una radio in forma di piccolo mobile. Eravamo seduti, mio padre ed io, a destra e a sinistra, su due poltrone. Più o meno le otto di sera, ascoltavamo il giornale radio, alla fine si sentì la voce di Fausto Coppi, era la voce che poi ho di nuovo sentito più volte, che non dimentico, una voce sottile, educata e ragionevole. Stava dicendo che riteneva molto improbabile di vincere il Giro, in testa alla classifica c’era un fuoriclasse, lo svizzero Hugo Koblet, che il Giro lo aveva vinto già due anni prima. Ricordo che da quella dichiarazione rimasi sconfortato. Poi, il giorno dopo, camminando a piedi verso casa di un compagno di scuola, dalla radio di un’edicola di piazza Bologna udii l’incredibile: Coppi stava riuscendo nel miracolo, aveva staccato Koblet, in quel momento saliva tra due
Lo scherzo di Roche
montagne di neve lungo i tornanti dello Stelvio, un nome che non avevo mai sentito e che né io né alcun altro tifoso di ciclismo potrà mai dimenticare. Coppi vinse il Giro, io avevo dieci anni, quello era il 1953. Due anni dopo, non so se ci fosse la televisione, un altro fatto straordinario. Un giovane toscano, Gastone Nencini, a una o due tappe dalla fine (ma la tappa che si doveva percorrere era in pianura)
Il tifo per Zilioli, tre volte secondo, lo scherzo di Roche al suo capitano Visentini. E poi Merckx, troppo bravo e troppo facili le sue vittorie
guidava la classifica. Non ci si aspettavano sorprese. Invece accadde l’inverosimile, di nuovo. Nencini forò, due grandi campioni, Coppi e Fiorenzo Magni, si allearono e fuggirono, Nencini non li raggiunse, non ci riuscì proprio, erano troppo, per lui, tutti e due insieme. Coppi vinse la tappa, Magni per la terza volta il Giro. E ancora l’anno dopo un’altra leggenda, che non si dimentica. Parlo della famosa tappa del Bondone, c’era la neve, faceva un freddo cane, la maglia rosa l’indossava Pasqualino Fornara, che si era distinto proprio nella tappa dello Stelvio del 1953. Fu magnifica, un a sé, la corsa di Fiorenzo Magni, che scalò tutta la montagna con una mano fasciata e attaccata non so come al manubrio (nella classifica finale arrivò secondo) ma la rivelazione fu un piccolo lussemburghese,
Charlie Gaul. Il Lussemburgo non l’avevamo mai sentito nominare, Gaul tanto meno, ricordo il suo sorriso, non aveva i denti cioè ne aveva pochi. Poi, credo, con i soldi guadagnati in quella epica impresa, se li fece rifare, vinse un’altra tappa e un altro giro (un Tour, nel 1959) più o meno nello stesso modo, divenne per tutti gli appassionati di ciclismo un semieroe. Dopo gli anni Cinquanta roba simile forse non ve ne fu. Vi fu un’altra terribile tappa sotto la neve, nel 1988, vinta dall’americano Andrew Hampsten, era la prima volta di un americano. E vi furono, naturalmente, una quantità di episodi sportivi, di gesti atletici, di sorprese che sarebbe difficile enumerare. Non ricordo con particolare felicità i Giri d’Italia vinti da Merckx, per lui era troppo facile, non c’era pathos, a contrastarlo non bastava il nostro Felice Gimondi, che pure di Giri ne ha vinti tre. Né ricordo con gioia i tre Giri consecutivi nei quali Italo Zilioli arrivò secondo: ero, del piemontese Zilioli, tifoso allo spasimo, aveva preso nel mio cuore il posto di Coppi, chissà come e chissà perché, forse perché al debutto vinse quattro o cinque corse (in linea) tutte di seguito. Ma come tacere dello scherzo che nel 1987 Stephen Roche fece al suo capitano Roberto Visentini? Visentini aveva la maglia rosa, e Roche lo attaccò e lo staccò. Il colpo a sorpresa dette i suoi frutti, quell’anno Roche vinse oltre al Giro il Tour e il campionato del mondo, impresa riuscita, credo a nessun altro. Un altro Giro che non posso dimenticare è quello del 1989, che seguii come cronista. Si concluse con un tanto eroico (da parte del perdente) quanto impari duello, tra Laurent Fignon e il nostro Giupponi: un duello simile a quello del 1975, a ruoli rovesciati tra l’italiano e il non italiano, fra Fausto Bertoglio e lo spagnolo Galdos. L’ultimo ricordo però voglio lasciarlo anch’io per Michele Scarponi, un uomo la cui morte mi ha fatto piangere — come non accade per chi non si conosce. Non si conosce? Ma io lo conoscevo, lo conoscevo bene! Lo avevo visto da vicino nel Giro del 2010. Gianni Mura mi aveva invitato per il «Processo alla tappa» che avrebbe commentato quella che si concludeva sul Terminillo. E lui, il marchigiano, era lassù, magro, timido, sorridente, modesto, sminuente (se stesso), ironico (proprio come lo si tramanda), stanco e forse felice. Era lì, vicino a me, in carne e ossa, vivo e palpitante, un campione.