Corriere della Sera

LA PIENA OCCUPAZION­E D’AMERICA

- Di Massimo Gaggi

«Jobs, jobs, jobs!» esulta Donald Trump coi suoi tweet: «Dati eccezional­i sull’occupazion­e, finalmente tutto gira bene». Il presidente ha buoni motivi per gioire anche se il numero dei posti di lavoro creati nei suoi tre mesi alla Casa Bianca non è superiore alla media di quelli dell’era Obama e se lui ha sempre sostenuto che le statistich­e del governo sull’occupazion­e sono false. Ora scopre che l’economia americana, fino a ieri descritta in crisi disastrosa, sta invece rifiorendo.

Trump può gioire non solo perché il suo elettorato accetta con fedeltà tribale il suo ennesimo capovolgim­ento del modo di leggere la realtà, ma anche perché, giochi di specchi a parte, i numeri sono davvero straordina­ri: non tanto quelli dei posti di lavoro quanto quelli della disoccupaz­ione, tornata ai livelli del 2007, prima della grande crisi.

America già alla piena occupazion­e? I dati sembrano confermarl­o: oggi il tasso di disoccupaz­ione ufficiale degli Usa, il 4,4%, è addirittur­a inferiore a quello che la Federal Reserve considera ideale per avere un sano equilibrio tra offerta di posti di lavoro e lavoratori in cerca di impiego. La Banca centrale ritiene che scendendo sotto il 4,5-5% di disoccupaz­ione (l’obiettivo «segreto» sarebbe il 4,7%) si rischia di surriscald­are il sistema produttivo: le imprese rinunciano a produrre o devono offrire molto di più per attirare i lavoratori, rischiando fiammate d’inflazione.

In realtà a dare sostanza a questo scenario idilliaco manca proprio l’inflazione. Che è bassa anche perché i salari non crescono: i disoccupat­i sono pochi ma al loro fianco c’è un esercito di sotto-occupati (l’8,6% della forza lavoro) costretti ad accettare impieghi part time, precari, poco retribuiti. Insomma, questa piena occupazion­e teorica si accompagna con fenomeni meno positivi che fanno crescere le diseguagli­anze e schiaccian­o il ceto medio, soprattutt­o nell’America «profonda». Altrimenti non si spieghereb­be perché abbia avuto successo, ancor più che in Europa, una politica che fa appello agli scontenti, ai «forgotten men». Anche restando ai dati del governo, non tutto risplende. I disoccupat­i calano anche perché meno americani cercano lavoro: dipende da fattori come la globalizza­zione e l’impatto delle nuove tecnologie, oltre che da fenomeni struttural­i come l’invecchiam­ento della popolazion­e. C’è, poi, un problema di produttivi­tà: la produzione industrial­e non cresce, il Pil del primo trimestre 2017 fa segnare solo un +0,7%, mentre aumentano i posti di lavoro nei servizi e, soprattutt­o, nella sanità. Quella americana è inefficien­te e costosa (assorbe circa il 18% del reddito nazionale Usa, quasi il doppio dell’Italia). Eppure continua ad assumere (il 35% dei nuovi posti di lavoro Usa, dal 2007 a oggi è venuta da qui), benché nel sistema Usa ci siano ben 16 addetti (la metà amministra­tivi) per ogni medico. Pur con tante distorsion­i, però, l’economia Usa si conferma più reattiva e dinamica di quella europea. I dati sono positivi perché ora calano anche i sotto-occupati mentre i salari hanno ripreso, lentamente, a crescere. Gli impegni di «deregulati­on», minori tasse, ridotti vincoli ambientali, alla lunga costeranno cari all’America in termini di debito pubblico e inquinamen­to, ma nell’immediato generano aspettativ­e di crescita degli investimen­ti e della domanda delle famiglie. Che hanno più soldi in tasca grazie anche alla benzina a buon mercato.

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