I limiti del neoliberismo e il vero potere delle banche L’analisi di Paragone
Il titolo potrebbe trarre in inganno: «Gangbank», una parola inventata. Ma nel primo libro del giornalista e conduttore televisivo Gianluigi Paragone, 46 anni, non c’è niente di inventato. Né le 311 pagine che lo compongono possono essere liquidate come «il solito libro qualunquista che non dice niente». Al contrario, uscito da pochi giorni per Piemme, «Gangbank» è un affresco da cronista di come la «grande finanza» — entità astratta composta da colossi bancari, fondi d’investimento, agenzie di rating, multinazionali ma dagli effetti molto concreti, e per Paragone molto negativi, sulla vita dei cittadini — abbia preso il controllo totale delle nostre esistenze, mettendo in un angolo la democrazia e le Costituzioni. E’ un pamphlet vecchio stile: ci sono i numeri, le statistiche (con le fonti opportunamente citate), le analisi, le storie. È soprattutto un attacco al neoliberismo, anche con qualche accento luddista quando l’autore manifesta timori per l’avvento dei robot distruttori del lavoro manuale e artigianale.
Sotto la penna di Paragone finiscono i politici che «hanno svenduto la Costituzione alle lobby», l’Europa che ci impone trattati su cui non abbiamo potere decisionale, che non capiamo perché scritti in modo incomprensibile e che ci impoveriscono; la retorica dei guasti del debito pubblico, che per Paragone è solo un cappio stretto dalle banche attorno al collo degli Stati per comandarli; l’abbandono del welfare pubblico a favore del business privato; l’inganno della sharing economy che arricchisce i monopolisti e affama con 2,5 euro all’ora i corrieri di Foodora; la precarizzazione del lavoro pubblicizzata dallo stesso governo Renzi, che nelle brochure istituzionali sottolinea che «i nostri ingegneri sono bravissimi e costano meno che altrove».
C’è una via d’uscita, per Paragone: opporsi alla «sdemocratizzazione». E striglia la politica: si occupi non solo di diritti civili politicamente corretti, come i matrimoni gay, ma torni ad affrontare i temi del lavoro, «non proprio un dettaglio da sacrificare in nome della modernità».