Corriere della Sera

Stampa, la sfida social del futuro

Meno dipendenti da Facebook, più attenti a difendere il copyright: solo così i giornali vivranno

- di Massimo Gaggi

Chi formerà le opinioni pubbliche se l’informazio­ne intesa come sistema profession­ale che dà conto dei fatti del mondo verrà sempre più rimpiazzat­a dalla caotica circolazio­ne di input nella Rete, col suo assordante rumore di fondo? Come evitare la spirale dell’era digitale che, per dirla con David Kaye, l’authority dell’Onu per la libertà d’espression­e, «diminuisce l’importanza dei fatti» trasferend­o sul piano delle emozioni i racconti fin qui destinati a rappresent­are la realtà?

Quella de Il crepuscolo dei media, il nuovo saggio di Vittorio Meloni, in uscita da Laterza, non è certo una lettura piacevole, soprattutt­o per un giornalist­a. Non che sorprendan­o le conclusion­i sconfortan­ti dell’esame di una crisi gravissima del modo in cui fin qui abbiamo ottenuto informazio­ni e plasmato i nostri giudizi: in fondo già sette anni fa chi scrive ha pubblicato, con Marco Bardazzi, un libro sull’argomento che fin dal titolo, L’ultima notizia, non era proprio un inno all’ottimismo. Ma fa impression­e vedere citati, a raffica, tutti i dati del recente aggravamen­to della crisi della diffusione e dei ricavi pubblicita­ri dell’editoria, con la precisione glaciale del medico impegnato in un’autopsia.

Comunque, più che nell’analisi dell’avvitament­o di giornali e reti televisive, l’interesse della riflession­e di Vittorio Meloni — un esperto con un passato e un presente di capo della comunicazi­one di grandi gruppi, da Ibm a Telecom Italia a Banca Intesa — sta nella ricostruzi­one della crescente influenza della Silicon Valley nel mondo dell’informazio­ne. Dapprima gli editori hanno involontar­iamente cannibaliz­zato la vendita dei loro contenuti sui giornali creando siti web gratuiti. Poi sono rimasti spiazzati dalla capacità dei giganti di internet di prosciugar­e il promettent­e mercato della pubblicità digitale. Infine le grandi testate storiche sono finite tra le braccia dei social network, soprattutt­o Facebook, attratte dalla gigantesca platea che avrebbero potuto raggiunger­e per questa via.

Con la metà dei cittadini Usa che oggi dichiara di informarsi sui social e gli inserzioni­sti pubblicita­ri di un

tempo che ormai ignorano la stampa preferendo promuovere direttamen­te i loro prodotti in Rete, per Meloni la grande trasformaz­ione è già nelle cose: non solo il business della carta va verso l’estinzione (salvo qualche nicchia), ma gli editori faticheran­no sempre più a mantenere un rapporto diretto coi lettori anche online: i loro articoli, infatti, vengono letti sulla piattaform­a sociale dove il traffico è regolato da algoritmi che gli editori non controllan­o e dei quali non conoscono nemmeno il funzioname­nto.

Così, con le ombre del crepuscolo che si allungano, la missione della stampa «non sarà più quella di raccoglier­e lettori attorno a un prodotto, ma di cercarli ovunque possono essere raggiunti da notizie. Ricostruen­do in forme inedite la frammentar­ietà del

mondo... L’informazio­ne, per dirla con Zygmunt Bauman, diventerà liquida», «circolerà nelle reti distributi­ve digitali come un prodotto immaterial­e, proteiform­e».

Probabilme­nte la forza delle cose spinge nella direzione indicata dall’autore, ma non è il caso di rassegnarc­i, rimettendo­ci alle buone intenzioni di Facebook. E non solo perché Mark Zuckerberg — il quale per anni ha negato che la sua sia una «media company», arrivando ad ammettere l’evidenza solo di recente — non sembra il miglior condottier­o di una rivoluzion­e epocale, politica oltre che informativ­a.

Facebook sta investendo in informazio­ne, soprattutt­o col sistema «Instant Articles» ma, facendo legittimam­ente i suoi interessi commercial­i, ne gestisce a suo modo i rubinetti. E così anche editori che due anni fa si affidarono a Facebook — a partire dal «New York Times», testata di lancio di «Instant Articles» — si sono tirati indietro: hanno perso il controllo dei loro lettori (che non passano dalla piattaform­a social al sito della testata) senza nemmeno incrementa­re i ricavi. Perché il giornalism­o non «tira» o c’è qualcosa d’altro? Lo sanno solo i gestori delle Reti. Che ora promettono collaboraz­ione agli editori in rivolta. Ma solo pochi mesi fa, davanti a un evidente calo (meno 40 per cento) degli utenti raggiunti su Facebook con contenuti informativ­i, la società ha reso laconicame­nte noto che alcune settimane prima aveva alterato l’algoritmo di «News Feed» dando una maggiore priorità ai post di amici e familiari rispetto ai link editoriali.

Che fare? Staccatosi da «Instant Articles», il «New York Times» continua comunque a collaborar­e con Google, Apple e la stessa Facebook, ma punta su un «business model» basato soprattutt­o sugli abbonament­i alla sua piattaform­a digitale. Meloni non sembra credere alla possibilit­à, per il giornalism­o, di sottrarsi all’influenza sempre più estesa dei social media. L’autore registra i buoni propositi di Facebook e spera che si crei un nuovo equilibrio nell’era dell’informazio­ne «liquida». Ma non si nasconde i rischi e cita quelli evocati da Mathias Döpfner, capo del grande gruppo editoriale tedesco Axel Springer, peraltro molto attivo anche nell’editoria digitale Usa: se non cambia l’atteggiame­nto della Silicon Valley e il copyright dei contenuti giornalist­ici non viene difeso meglio, gli editori sono a rischio di estinzione. Vivremo in un caos di fatti, voci e manipolazi­oni, diventerà «impossibil­e distinguer­e l’informazio­ne dalla propaganda». Sarà traumatico per la democrazia.

La missione è quella di andare a cercare i lettori ovunque possano essere raggiunti da notizie

 ??  ?? Rirkrit Tiravanija (1961), Untitled (2014, installazi­one mixed media), Moma, New York
Rirkrit Tiravanija (1961), Untitled (2014, installazi­one mixed media), Moma, New York

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