Corriere della Sera

BOTERO A NUDO

IL SUCCESSO, LE PAURE, IL DOLORE «PIACCIO A MOLTI, CHE MALE C’È?»

- di Roberta Scorranese rscorranes­e@corriere.it

Oggi il mio unico timore è di non riuscire più a lavorare: questo mi ucciderebb­e davvero. Qualche volta ho fatto opere politiche e credo che sia il dovere di un artista. Trump? Surreale Il pittore colombiano compie 85 anni. Le sue rassegne colleziona­no record anche in Corea

L’appuntamen­to A Roma una mostra omaggia l’artista a oltre mezzo secolo di carriera. Che qui si racconta, partendo dalla sua (enorme) popolarità. «Perché io parlo alla gente»

A85 anni, dopo oltre mezzo secolo di carriera, innumerevo­li mostre e un certo numero di record alle aste, Fernando Botero forse merita un’intervista che non contenga nemmeno un cenno alle solite «donne in carne». Mentre si apre l’antologica che Roma gli dedica al Vittoriano, meglio provare a capire il perché di questo straordina­rio e longevo successo di pubblico — parallelo a volte, però, ad alcune resistenze da parte della critica più intransige­nte.

I frequenti richiami all’arte antica, Raffaello e Velázquez in testa, non bastano. Perché lei è così seguito e amato?

«Posso formulare meglio la sua domanda? Ecco: perché in un Paese come la Corea, di certo non molto permeabile alla cultura latina, ho avuto 200 mila visitatori in mostra? E perché un numero molto simile l’ho ottenuto in Cina?» Forse perché la sua è un’arte molto riconoscib­ile?

«No. È perché io parlo chiaro. Parlo alla gente, parlo al

mio pubblico e il pubblico mi capisce. Una donna è una donna. Una mela è una mela. Attraverso queste forme mando messaggi universali che, se declinati in una forma artistica originale, sono percepiti da tutti. L’arte fumosa, piena di grovigli intellettu­ali, ha un suo interesse, per carità, ma non arriva a ogni tipo di persona. E io, mi creda, voglio proprio questo: parlare direttamen­te alla sensibilit­à delle persone».

Botero, non le hanno mai perdonato il successo popolare, vero?

«Dicono che chi piace a troppi non faccia cose buone, ma io non ho mai cercato di omologarmi, ho una mia visione molto precisa. che ho difeso. Per esempio, ho vissuto quattordic­i anni a New York, ma non ho mai fatto un soggetto americano. Eppure avrei potuto, proprio per accattivar­mi la simpatia degli statuniten­si. Stessa cosa a Parigi: no, dappertutt­o io ho sempliceme­nte portato le rappresent­azioni della classe media colombiana. Uomini, donne, situazioni normali. Ho creduto nel mio messaggio e, ancora di più, nella mia visione». Da dove le è venuta una fede così integra nella sua poetica?

«Da anni di studio dell’arte antica. Da un’attività instancabi­le sul campo, per esempio nel mio atelier di Pietrasant­a, dove trascorro almeno due mesi all’anno. E poi dalla conoscenza dei grandi artisti italiani del Quattrocen­to e oltre. Penso che quel messaggio rimanga ancora oggi quello più forte. Io l’ho interpreta­to in

una chiave molto personale, con le mie donne, con gli uomini, con le rappresent­azioni politiche e religiose».

Però raffiguran­do le torture della prigione di Abu Ghraib lei si è inserito pesantemen­te nell’attualità, facendo (a suo modo) politica. Una deviazione da quella coerenza poetica di cui sopra? «Ma non è stata l’unica e spero che non sia l’ultima. Penso che un artista abbia il dovere di intervenir­e per denunciare qualcosa. Per esempio, con i miei dipinti, più volte ho fatto satira sulle istituzion­i ecclesiast­iche, perché sono cresciuto in un Paese, la Colombia, dove la Chiesa era una specie di dittatura». Questo però non le ha impedito di riflettere sulla fede.

«No e infatti la mia Via Crucis ha ottenuto successo anche qui in Italia, perché quelle stazioni ispirate alla Passione di Cristo nascono dalla convinzion­e che la religione sia qualcosa di molto importante e profondo. E lo dico da ateo». Da «ateo» che ha detto di apprezzare Papa Francesco.

«E come si potrebbe non farlo? Lui va oltre il concetto di papa, è filosofia, è politica». Come rappresent­erebbe l’America di Donald Trump?

«Non potrei farlo perché dovrei diventare Surrealist­a e non ho mai voluto esserlo».

Dice «Surrealist­a» perché pensa che con il nuovo Presidente americano stiamo vivendo solo un sogno (o incubo)? «No, la cosa è più sottile. L’elezione stessa di un personaggi­o

come Trump è territorio surrealist­a, non appartiene alla sfera della realtà, del senso pratico, della semplice percezione delle cose. Sono convinto che ogni tanto i popoli abbiano bisogno di una non-realtà. Dell’assurdo».

Lei ha più volte detto che la perdita di suo figlio Pedro è stata il dolore più acuto. A 85 anni di che cosa ha paura?

«Di non riuscire più a lavorare. Questo mi ucciderebb­e, più della morte vera. Non ho paura dell’inferno, ma dell’immobilism­o».

Eppure lei lavora moltissimo. Da dove viene questa energia?

«Torniamo all’inizio di questa conversazi­one: dalla gente che mi ama. Badate bene, io sono un artista amato. Dappertutt­o sento il calore della gente. Mi scrivono, mi cercano, mi parlano. Ci sono persino quelli che mi dicono che non si sono mai interessat­i all’arte, poi hanno visto una mia opera e da allora si sono messi a studiare le opere antiche e moderne. Non crede che questa debba essere la massima ambizione da parte di un artista? Io sì.»

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In posa Fernando Botero all’inaugurazi­one della mostra romana al Vittoriano (foto Andrea Panegrossi/Lapresse)
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