Corriere della Sera

PREMIARE L’INDUSTRIA CHE FA RICERCA

- di Luigi Ripamonti

In Italia ci sono molte persone con epatite C. Per questo la gestione delle nuove terapie per l’infezione ha rappresent­ato e rappresent­a una sfida molto complessa. A quali dei malati, quando e come, garantire i nuovi farmaci efficaciss­imi ma costosissi­mi (almeno all’inizio) che si sono resi disponibil­i, cercando allo stesso tempo di non sottrarre risorse ad altri importanti capitoli della spesa sanitaria ?

I numeri dicono che dal 2015 a oggi sono 73 mila le persone che hanno ricevuto i trattament­i innovativi e che l’Aifa (Agenzia Italiana del Farmaco) ha ottenuto di pagare i medicinali ai prezzi più bassi d’Europa (si veda nelle pagine successive). Lo sforzo è stato notevole e l’impegno delle istituzion­i appare incoraggia­nte anche se la guerra non è certo ancora vinta. Detto quindi che molto rimane da fare, ci si può comunque chiedere se non sia già possibile tracciare un bilancio di questa situazione senza precedenti.

Una prima lezione che si può trarre dalla vicenda è che disporre di un Servizio Sanitario Nazionale che funga da «pagatore unico» per i farmaci, a differenza di quanto accade in diverse altre nazioni, si conferma un vantaggio per la trattativa sui prezzi e quindi per l’accesso alle terapie.

Una seconda lezione che impartisce il «caso epatite C» è che bisognerà abituarsi a far fronte a costi per le medicine molto maggiori di quelli a cui siamo stati abituati fino a un recente passato. Costi in buona parte dovuti agli ingenti investimen­ti necessari in ricerca per le moderne molecole biologiche, che giustifica­no la richiesta di un adeguato premio per l’innovazion­e. In un’economia di mercato è vantaggios­o riconoscer­lo, perché in tal modo si alimenta una filiera produttiva di importante valore.

Diverso è il caso delle aziende che per proporre innovazion­e si assumono un rischio di natura esclusivam­ente finanziari­a, per esempio attraverso l’acquisizio­ne di molecole interament­e ideate o sviluppate da terzi (specie quando si tratti di istituzion­i sostenute da denaro pubblico). In tali circostanz­e appare legittimo interrogar­si su quanto e come tenerne conto nella valutazion­e del premio, perché un beneficio sproporzio­nato non andrebbe ad alimentare un’attività per sé «socialment­e utile», ma solo, o prevalente­mente, l’abilità nell’investimen­to di capitale.

Il che potrebbe rappresent­are un disincenti­vo per le industrie che invece investono davvero in ricerca.

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