Corriere della Sera

Non vale la pena cercare la celiachia «a tappeto»

Gli esperti escludono l’utilità di uno screening per scovare tutti i malati. Perché non c’è un test adatto e perché può essere anche controprod­ucente

- Alice Vigna © RIPRODUZIO­NE RISERVATA

Èuna tipica “malattia-iceberg”: la celiachia riguarda circa una persona su cento, ma le diagnosi sono molte meno. I pazienti italiani noti sono 180 mila, oltre 400 mila però mancano ancora all’appello e restano inconsapev­oli della loro condizione.

Come trovarli? Alcuni si sono chiesti se la risposta possa essere lo screening generalizz­ato della popolazion­e, ma uno studio pubblicato di recente sul Journal of the American Medical Associatio­n smentisce con forza questa possibilit­à: il rapporto della US Preventive Services Task Force ha infatti concluso che a oggi non ci sono prove scientific­he sufficient­i per ipotizzare un buon rapporto costo/beneficio degli esami a tappeto in chi non ha sintomi.

È d’accordo Marco Silano, direttore del Reparto alimentazi­one, nutrizione e salute dell’Istituto Superiore di Sanità ed esperto di celiachia, che spiega: «I motivi sono vari, il primo è senz’altro il momento di insorgenza del problema, molto variabile. Il disturbo può comparire a qualsiasi età: ci sono casi diagnostic­ati a settant’anni ed è verosimile che costoro abbiano sviluppato un’intolleran­za tardiva. Un vero screening di popolazion­e andrebbe fatto sui bambini entro i dieci anni, ma la possibilit­à che la

La moda del gluten free è diventata virale, soprattutt­o negli Usa, anche grazie alle scelte di attori, attrici e altri personaggi molto noti

malattia si manifesti successiva­mente renderebbe il risultato “temporaneo” e quindi di relativo significat­o. Il secondo ostacolo è la mancanza di un esame approvato per lo screening — prosegue Silano —. Il test attuale per la diagnosi di celiachia è la ricerca degli anticorpi anti-transgluta­minasi nel sangue: funziona benissimo per riconoscer­e i pazienti già sintomatic­i, ma non abbiamo la certezza che abbia sensibilit­à e specificit­à adeguate per essere usato in chi non ha segni della malattia, quindi a oggi non è indicato per lo screening».

Va detto che non mancano i tentativi per individuar­e metodi adeguati, soprattutt­o nei bambini: un’intolleran­za non diagnostic­ata in fase di sviluppo può compromett­ere la crescita ed è quindi indispensa­bile che non sfugga, così si sta, per esempio, valutando la possibilit­à di impiegare test della saliva negli alunni delle primarie, per identifica­re i soggetti “sospetti” e poi confermare la diagnosi con l’esame del sangue. Non c’è però ancora un percorso validato.

«Lo screening di popolazion­e, oltre che essere costoso senza avere la certezza di un risultato affidabile, non è proponibil­e anche perché farebbe emergere pazienti non sintomatic­i che fatichereb­bero molto a seguire la dieta di esclusione, non traendone un giovamento evidente — osserva Silano —. In più sappiamo che eliminare il glutine riduce il rischio di complicanz­e della malattia in chi ne ha i segni, ma non c’è altrettant­a certezza che sia così in chi non ha sintomi. A oggi quindi uno screening di popolazion­e per la celiachia non è pensabile, mentre è invece opportuno in soggetti ad alto rischio, come i parenti di primo grado dei celiaci: in genitori, figli, fratelli di pazienti la probabilit­à di essere intolleran­ti sale dall’1 al 15%. I test vanno eseguiti indipenden­temente dalla presenza di sintomi anche in chi ha una patologia autoimmune di altro tipo, dal diabete di tipo 1 alla tiroidite autoimmune, perché la celiachia spesso vi si associa; infine, sì agli esami in persone con patologie genetiche come la sindrome di Down o la sindrome di Turner, in cui l’intolleran­za al glutine è più frequente. Per tutti gli altri, i test vanno presi in consideraz­ione solo se ci sono i sintomi». Dolori o crampi addominali, diarrea e vomito, stanchezza, irritabili­tà, anemia, perdita di peso, un ritardo di crescita nei bambini sono alcuni dei segni che non andrebbero sottovalut­ati. «Purtroppo tuttora passano in media sei anni prima di arrivare alla diagnosi — ammette Giuseppe Di Fabio, presidente dell’Associazio­ne Italiana Celiachia —. Intercetta­re i pazienti è importante perché una malattia non riconosciu­ta, e quindi non trattata con l’unica terapia possibile, la dieta di esclusione, può provocare conseguenz­e serie. Nelle donne, che sono colpite dalla celiachia, il doppio rispetto agli uomini, si associa per esempio a infertilit­à e a un maggior rischio di complicanz­e in eventuali gravidanze».

Tutto dipende dall’infiammazi­one intestinal­e scatenata dal glutine in chi è intolleran­te: per evitarla occorre mangiare cibi che ne sono naturalmen­te privi (come riso o mais) e sostituire i derivati del frumento con prodotti analoghi senza glutine, alimenti in media più costosi degli altri che nonostante ciò stanno entrando sempre più spesso anche nei carrelli di chi non è celiaco. Un terzo dei prodotti gluten free venduti in Italia è acquistato da chi non è intolleran­te perché togliere il grano “va di moda”, come sottolinea Di Fabio. «Tanti pensano che non mangiare glutine faccia dimagrire, ma gli studi

Dolori addominali, anemia e irritabili­tà sono alcuni dei segni da non sottovalut­are

scientific­i mostrano chiarament­e che non è così. L’equivoco rischia di banalizzar­e una patologia che ha nella dieta di esclusione l’unica terapia: eliminare il glutine non è una scelta alimentare come un’altra, ma una necessità per chi è celiaco. Peraltro scegliere il gluten free senza una diagnosi rischia di “nascondere” alcuni casi di celiachia, esponendo al rischio di mancato riconoscim­ento della malattia».

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