Pazienti emofilici a rischio (anche) in Pronto soccorso
La patologia resta ancora sconosciuta non solo alla maggior parte delle persone, ma persino tra i medici. E questo rende più difficile l’intervento tempestivo in emergenza, con conseguenze gravi
Resoconto di un’ordinaria, piccola, odissea: una coppia di genitori arrivano in Pronto soccorso con il figlio emofilico. È caduto e ha un ginocchio gonfio. Per abitudine, papà e mamma portano con sé la boccetta del farmaco per l’infusione del fattore di coagulazione che manca al ragazzo perché spesso i Pronto soccorso non lo hanno a disposizione.
Il medico di turno però non sa bene che cosa fare e di certo non vuole assumersi la responsabilità di somministrare la medicina prima di avere accertato esattamente la natura del trauma. Eppure, nei pazienti emofilici il trattamento con il fattore sostitutivo deve essere immediato anche solo in caso di sospetto di un’emorragia. E gli accertamenti diagnostici dovrebbero essere eseguiti in un momento successivo.
La cosa più semplice sarebbe chiamare il centro per l’emofilia più vicino, ma non tutti hanno una reperibilità. E così il tempo passa e i genitori assistono un po’ impotenti alla situazione. «Accade spesso» spiega Andrea Buzzi, presidente della Fondazione Paracelso, che dal 2004 si occupa di promuovere e organizzare la ricerca scientifica nel settore della prevenzione, diagnosi e cura dell’emofilia e di altri deficit ereditari della coagulazione. «La nostra è una patologia ancora sconosciuta alla gente, ma anche a gran parte della classe medica, ed è difficile capire come mai —aggiunge —. Questo aspetto si ripercuote in modo pesante sulla vita del paziente e porta a una mancata integrazione nel tessuto sociale».
Non è un caso che la tredicesima Giornata mondiale, celebrata il 10 aprile scorso, abbia avuto come tema in Italia (lanciato da FedEmo, Federazione delle associazioni emofilici) la gestione del paziente emofilico in emergenza.
Secondo i dati forniti dalla Società Italiana della Medicina di Emergenza-Urgenza (Simeu) ancora oggi la principale causa di morte negli emofilici è l’emorragia in urgenza (30% dei casi). Come al solito, la situazione nel nostro Paese è a macchia di leopardo. Accanto a Regioni all’avanguardia sul tema dell’accettazione in Pronto Soccorso, come l’Emilia Romagna, ne esistono altre «dove a volte non si conosce il significato della parola “emofilico” o non si hanno competenze specifiche sulle malattie rare», ha denunciato Cristina Cassone, presidente di FedEmo. Nel Centro Sud, soprattutto, ma anche in Lombardia.
Certo non è più come vent’ anni fa, quando molti pensavano che l’emofilia fosse “quella malattia che se ti tagli, muori”. Ma se quasi il 9 per cento del campione di un’indagine commissionata proprio dalla Fondazione Paracelso (fine aprile 2017) è ancora dell’opinione che l’emofilia sia una “malattia contagiosa” forse di strada ce n’è ancora da fare.
Ne sono convinti i promotori della ricerca, appunto della Fondazione Paracelso, che hanno voluto tastare il polso del «comune sentire» sulla patologia. I dati dell’indagine (si veda il grafico) lo confermano: oltre la metà dei duemila intervistati dice di non avere mai sentito parlare di emofilia. Tra quanti affermano di conoscerla, la maggioranza è rappresentata da donne, sopra i 50 anni e con istruzione superiore, del Nord Est dell’Italia.
Tra chi afferma di conoscere l’emofilia, la maggioranza sembrerebbe avere le idee abbastanza chiare sia sulla natura della malattia che sulle cause. «Questo campione di indagine è senz’altro più incoraggiante dell’esperienza che ci viene riportata dai pazienti», chiosa Andrea Buzzi. I risultati della ricerca potrebbero indicare l’inizio di un cambiamento di consapevolezza nel grande pubblico verso questa tematica.
«Ma bisogna fare di più — aggiunge Buzzi — soprattutto dal punto di vista istituzionale e sociale. È fondamentale creare una vera rete di Centri, obiettivo che riteniamo raggiungibile senza spreco di risorse, e continuare nella ricerca di terapie più efficaci. Spesso però l’incremento di qualità nelle cure non si traduce anche in un maggiore senso di benessere per i pazienti e le loro famiglie. Allora secondo noi c’è bisogno di riorientare lo sguardo. Bisogna gestire tutto quello che esiste intorno alla malattia. È necessario un maggiore ascolto e un maggiore coinvolgimento dei pazienti, sulla base di un modello partecipativo delle cure».