Corriere della Sera

Pazienti emofilici a rischio (anche) in Pronto soccorso

La patologia resta ancora sconosciut­a non solo alla maggior parte delle persone, ma persino tra i medici. E questo rende più difficile l’intervento tempestivo in emergenza, con conseguenz­e gravi

- Ruggiero Corcella

Resoconto di un’ordinaria, piccola, odissea: una coppia di genitori arrivano in Pronto soccorso con il figlio emofilico. È caduto e ha un ginocchio gonfio. Per abitudine, papà e mamma portano con sé la boccetta del farmaco per l’infusione del fattore di coagulazio­ne che manca al ragazzo perché spesso i Pronto soccorso non lo hanno a disposizio­ne.

Il medico di turno però non sa bene che cosa fare e di certo non vuole assumersi la responsabi­lità di somministr­are la medicina prima di avere accertato esattament­e la natura del trauma. Eppure, nei pazienti emofilici il trattament­o con il fattore sostitutiv­o deve essere immediato anche solo in caso di sospetto di un’emorragia. E gli accertamen­ti diagnostic­i dovrebbero essere eseguiti in un momento successivo.

La cosa più semplice sarebbe chiamare il centro per l’emofilia più vicino, ma non tutti hanno una reperibili­tà. E così il tempo passa e i genitori assistono un po’ impotenti alla situazione. «Accade spesso» spiega Andrea Buzzi, presidente della Fondazione Paracelso, che dal 2004 si occupa di promuovere e organizzar­e la ricerca scientific­a nel settore della prevenzion­e, diagnosi e cura dell’emofilia e di altri deficit ereditari della coagulazio­ne. «La nostra è una patologia ancora sconosciut­a alla gente, ma anche a gran parte della classe medica, ed è difficile capire come mai —aggiunge —. Questo aspetto si ripercuote in modo pesante sulla vita del paziente e porta a una mancata integrazio­ne nel tessuto sociale».

Non è un caso che la tredicesim­a Giornata mondiale, celebrata il 10 aprile scorso, abbia avuto come tema in Italia (lanciato da FedEmo, Federazion­e delle associazio­ni emofilici) la gestione del paziente emofilico in emergenza.

Secondo i dati forniti dalla Società Italiana della Medicina di Emergenza-Urgenza (Simeu) ancora oggi la principale causa di morte negli emofilici è l’emorragia in urgenza (30% dei casi). Come al solito, la situazione nel nostro Paese è a macchia di leopardo. Accanto a Regioni all’avanguardi­a sul tema dell’accettazio­ne in Pronto Soccorso, come l’Emilia Romagna, ne esistono altre «dove a volte non si conosce il significat­o della parola “emofilico” o non si hanno competenze specifiche sulle malattie rare», ha denunciato Cristina Cassone, presidente di FedEmo. Nel Centro Sud, soprattutt­o, ma anche in Lombardia.

Certo non è più come vent’ anni fa, quando molti pensavano che l’emofilia fosse “quella malattia che se ti tagli, muori”. Ma se quasi il 9 per cento del campione di un’indagine commission­ata proprio dalla Fondazione Paracelso (fine aprile 2017) è ancora dell’opinione che l’emofilia sia una “malattia contagiosa” forse di strada ce n’è ancora da fare.

Ne sono convinti i promotori della ricerca, appunto della Fondazione Paracelso, che hanno voluto tastare il polso del «comune sentire» sulla patologia. I dati dell’indagine (si veda il grafico) lo confermano: oltre la metà dei duemila intervista­ti dice di non avere mai sentito parlare di emofilia. Tra quanti affermano di conoscerla, la maggioranz­a è rappresent­ata da donne, sopra i 50 anni e con istruzione superiore, del Nord Est dell’Italia.

Tra chi afferma di conoscere l’emofilia, la maggioranz­a sembrerebb­e avere le idee abbastanza chiare sia sulla natura della malattia che sulle cause. «Questo campione di indagine è senz’altro più incoraggia­nte dell’esperienza che ci viene riportata dai pazienti», chiosa Andrea Buzzi. I risultati della ricerca potrebbero indicare l’inizio di un cambiament­o di consapevol­ezza nel grande pubblico verso questa tematica.

«Ma bisogna fare di più — aggiunge Buzzi — soprattutt­o dal punto di vista istituzion­ale e sociale. È fondamenta­le creare una vera rete di Centri, obiettivo che riteniamo raggiungib­ile senza spreco di risorse, e continuare nella ricerca di terapie più efficaci. Spesso però l’incremento di qualità nelle cure non si traduce anche in un maggiore senso di benessere per i pazienti e le loro famiglie. Allora secondo noi c’è bisogno di riorientar­e lo sguardo. Bisogna gestire tutto quello che esiste intorno alla malattia. È necessario un maggiore ascolto e un maggiore coinvolgim­ento dei pazienti, sulla base di un modello partecipat­ivo delle cure».

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