L’architettura politica di Gaetano Pesce «Cari italiani, coraggio, siate ottimisti»
Mantova celebra l’artista. «Nel futuro vedo libertà e tolleranza, anche nel progettare»
Parla di diversità e del tempo — «la vera sfida è stargli dietro» — della necessità di comunicare, di bellezza e tolleranza. Del progettare, che vuol dire rispettare il genius loci, evitando ogni genere di standardizzazione. Del design che sta cambiando pelle, delle nuove generazioni, di un futuro migliore. Si racconta con l’entusiasmo di un giovane appena uscito dalla facoltà di Architettura. E invece è un pezzo di storia dell’architettura. Gaetano Pesce, artista, scultore, designer. Studio a New York, creazioni in tutto il mondo. E una mostra a Mantova che dal prossimo sabato ne celebra il talento e la poetica: Architettura e Figurazione. Progetti, schizzi e plastici (alcuni enormi) nel complesso museale di Palazzo Ducale. Un cervello in movimento. Che intreccia linguaggi e visioni. Tecniche e materiali.
Come è nata l’idea della mostra?
«Dal bisogno di lanciare alcuni messaggi. Il primo: la figuratività entra di diritto nella tavolozza dell’architettura, che deve trasmettere emozioni».
Perché questa esigenza?
«Il progetto decorativo è legato al passato, l’architettura astratta è materia da esteti, non è più il momento della produzione accademica. Nostro compito, invece, è comunicare con un pubblico non specializzato. E per questo è giusto che l’architettura si arricchisca di una forma riconoscibile. Da qui il titolo della mostra curata da Renata Cristina Mazzantini e inserita nel cartellone di MantovArchitettura del Politecnico di Milano».
È un’esposizione d’arte o di architettura?
«Ecco, appunto. Un altro messaggio che cerco di lanciare con questa mostra è che la maggior parte delle volte che diciamo architettura parliamo di edilizia. Ma l’architettura degna di questo nome non può rimanere intrappolata in forme standardizzate, non può essere sempre uguale a se stessa, in modo obsoleto e superficiale. Ripetersi oggi non è più pensabile».
Ma non si rischia così di perdere lo stile, il carattere del progettista?
«Bisogna essere capaci di seguire il tempo, che oggi corre veloce. Proprio per questa accelerazione gli artisti non possono essere più riconoscibili come una volta, penso per esempio ai lavori di Giuseppe Capogrossi. Viviamo in una stagione contraddittoria e liquida, e allora non possiamo che essere incoerenti e irriconoscibili (sarà questo il tema di una mostra che farò tra due anni al Louvre)».
Nessuna firma dunque?
«Nessuna standardizzazione. Ma un’architettura figurativa che può aiutare la comunicazione e aprire nuove strade espressive. E che sappia interpretare lo spirito del luogo, promuovere la dimensione locale della progettazione. Anche questo è uno dei messaggi della mostra: no all’International Style».
E sì all’architettura etica?
«L’architettura è un’arte principale, complessa e completa. Non è decorazione, non è solo forma. Dunque è etica, ma soprattutto politica: la Pluralist Tower del 1987, la torre pluralista, pensata con tanti piani differenti e, possibilmente, progettata da mani diverse può essere un monumento alla democrazia».
Il design?
«Ha la stessa importanza della progettazione. E non si accontenta più di forma e funzione, vuole essere uno strumento della visione politica, filosofica, religiosa del designer stesso. Sono convinto che il design stia diventando sempre di più un’arte, soprattutto i giovani negli Stati Uniti se ne stanno accorgendo. Andiamo in questa direzione. Spero che anche l’architettura abbia questo futuro».
A proposito di futuro, lei a differenza di molti sembra avere sensazioni positive.
«In questo momento storico si ha l’impressione che molte cose vadano nella direzione sbagliata. Ma alcuni segnali ci fanno pensare che il domani sarà migliore dell’oggi. Per esempio il nostro tempo ha fatto esplodere i valori della diversità e dell’individualità. Non è come in passato in cui tutti erano omologati».
Dunque è ottimista?
«Estremamente, il pessimismo è dei conservatori».
È del 1989-1993 l’«Organic Building» da lei progettato per Osaka, con la facciata alberata. Si è mai sentito troppo avanti rispetto al suo tempo?
«No, il mio lavoro mi dà grande piacere, lo vivo con gioia e curiosità. E se vedo una mia idea sviluppata da altri architetti lo percepisco come un complimento».
Come vive il trascorrere del tempo?
Creare vuol dire saper trasmettere emozioni, comunicare con tutti
«Il tempo è una cosa straordinaria, ci può tenere davanti o dietro. Bisogna stare al suo ritmo, altrimenti si invecchia».
Lei ha scelto di lavorare a New York. Si sente ancora italiano?
«Certo. Soprattutto veneto. Da lì viene la mia formazione».
E dal suo osservatorio newyorkese cosa direbbe agli italiani?
«Ai miei compaesani direi di essere meno pessimisti e meno criticoni e consiglierei loro di imparare a riconoscere il valore dell’avversario».
La bellezza?
«È in migliaia di esemplari quanti sono gli individui. Nel futuro vedo libertà e tolleranza».
Biennale d’arte o di architettura?
«Le ho fatte tutte e due e ritengo che entrambe siano utili al nostro Paese. Spero che l’Italia continui a mantenere questo suo Dna culturale. E che noi potremo continuare a essere persone coltivate».