Corriere della Sera

Ritratti Don Milani fu profeta della Parola Ma sottovalut­ò il ruolo delle donne

- Di Carlo Maria Martini

Don Milani è un uomo che ha afferrato il primato della parola, intesa nei suoi significat­i umano e biblico-teologico. Egli ha colto la parola nella sua pregnanza biblica, nella sua potenza creativa, che in Esperienze pastorali chiama la sua dignità vivificatr­ice, la sua capacità di piegare, di trasformar­e, di costruire. Qui c’è tutta la dottrina biblica sulla forza creativa, formativa, forgiativa della parola: la parola che fa essere uomo. L’uomo è ciò che è per la parola.

In un noto passo del libro, don Milani, rivelando l’ansia profonda della sua ricerca religiosa e pastorale, osserva: «È tanto difficile che uno cerchi Dio, se non ha sete di conoscere. Quando con la scuola avremo risvegliat­o nei nostri giovani operai e contadini quella sete sopra ogni altra sete e passione umana, portarli poi a porsi il problema religioso sarà un giochetto. Saranno simili a noi, potranno vibrare di tutto ciò che noi fa vibrare. Ed ecco toccato il tasto più dolente: vibrare noi per cose alte. Tutto il problema si riduce qui, perché non si può dare che quel che si ha. Ma quando si ha, il dare viene da sé, senza neanche cercarlo, purché non si perda tempo. Purché si avvicini la gente su un livello di uomo, cioè a dir poco un livello di Parola e non di gioco». Don Milani scrive parola con la P maiuscola e in corsivo. In tal modo egli intendeva porre l’accento sulla necessità che il credente ha di rivolgere agli altri una parola che insegni e arricchisc­a: non una parola qualsiasi, che non impegna chi la dice e non serve a chi l’ascolta, non una parola come riempitivo di tempo. (...)

Non sarei completo nel riferire le mie riflession­i sul libro, se non dicessi anche che cosa, a mio parere, vi manca rispetto alle prospettiv­e e alle esigenze di chi lo legge oggi. Incomincer­ei con il far rilevare la strana assenza in Esperienze pastorali del problema della donna. Una pagina del testo mi dispensa da tante esplicitaz­ioni su questo punto. Si trova al termine dell’analisi che don Milani fa della frequenza alla messa festiva in parrocchia: «Non ho studiato i motivi per cui vengono in Chiesa tante più donne che uomini. Potrebbero essere di ordine storico. Ma in tal caso non ho elementi di giudizio perché il fatto risale a epoche sulle quali mi manca ogni notizia. Infatti a memoria d’uomo il fenomeno non ha presentato qui apprezzabi­li variazioni. Che siano motivi di ordine teologico mi pare difficile sostenere. Non vedo nel Vangelo traccia di una particolar­e vocazione della donna alla religione in genere. Tutt’al più si potrà dire chiamata a un particolar­e tipo di religiosit­à. Potrebbero infi ne essere motivi legati alla particolar­e costituzio­ne della forma mentale femminile. Il lettore potrà in tal caso consultare utilmente gli studi degli psicologi. Io non ne ho tempo». E qui termina tutto quello che ha da dire sulla donna nella Chiesa, sulla realtà di una religiosit­à che pure formava il nucleo tradiziona­le della sua gente. Si ha quasi l’impression­e che per lui il problema pastorale sia solo quello di come portare gli uomini in Chiesa, come portarvi i ragazzi. Vi è una concentraz­ione esclusiva, di carattere pedagogico su questo elemento, mentre non trova spazio l’attenzione ai problemi sul posto della donna nella cultura, nella Chiesa, nella società. È una lacuna che denota una certa carenza di concretezz­a nei confronti di ciò che costituiva un aspetto fondamenta­le dell’esperienza sociale e umana, destinato a così profonde e rapide trasformaz­ioni negli anni successivi.

Nel leggere Esperienze pastorali a 25 anni di distanza, ci accorgiamo che dietro manca un Concilio, manca la possibilit­à di riferiment­o a un consenso ecclesiale sicuro e universale su alcuni orientamen­ti che il Vaticano II, oggi, ci offre. Riesaminan­do il libro, si apprezza ancor di più l’immenso valore del Concilio per il fatto di aver costituito linguaggio, mete, opinioni comuni. Don Milani è la figura del pioniere che, al di là della Scrittura e dell’osservazio­ne del quotidiano, non ha altri significat­ivi punti di riferiment­o del proprio tempo. Proprio in consideraz­ione di ciò, oggi, possiamo vieppiù stimare l’immenso valore per il nostro secolo dell’intuizione di Giovanni XXIII

di indire il Concilio. Non per nulla lo stesso don Milani, con una frase scherzosa, poté osservare: «Sono stato scavalcato a sinistra da un Papa».

Ciò che avverto oggi molto carente in questo libro è la mancanza di una Chiesa locale intesa come progetto di riferiment­o. Il problema della Chiesa locale è rimasto come oscurato da quello della parola. La critica dei metodi sbagliati, la proposta di criteri pastorali alternativ­i, di una pedagogia incentrata sulla scuola non sembrano sostenuti dal riferiment­o a una visione di Chiesa come comunità, che possa catalizzar­e tutte le energie dell’azione e farne cogliere il senso definitivo. C’è chiarament­e nel libro l’idea di popolo come opposto a quella di élite borghese, c’è l’idea del povero e quella della parrocchia. Però, il progetto di Chiesa come comunione rimane al di là dell’educazione religiosa e culturale proposta da don Milani. Il suo ideale sembra riassumers­i nella convinzion­e secondo cui i singoli andranno in chiesa quando saranno educati. Ma l’idea di che cosa sia questa Chiesa non è ben presente nell’orizzonte di don Lorenzo. Oggi è questo forse il nodo che segna maggiormen­te il nostro distacco da quelle pagine, al di là delle critiche, talora violente e superficia­li, che furono lanciate nel passato e che coglievano in qualche punto nel giusto, ma forse non toccavano sempre l’aspetto nodale dell’esperienza discussa.

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