Montaldo, il poeta smemorato mostra le fragilità dei giovani
Il regista Bruni: un confronto generazionale tra commedia e dramma
Itre film che Francesco Bruni ha diretto (ieri Scialla! e Noi 4, oggi Tutto quello che vuoi) sembrano muoversi all’interno di una medesima area di riferimento, quella di un gruppo familiare che finisce per oscillare tra disfunzionalità generazionale e indecisione cechoviana. Una specie di «ipoteca umana» che probabilmente fa sentire il regista Bruni protetto sul piano della credibilità e del realismo, ma finisce per limitare lo sceneggiatore Bruni su quello dell’invenzione e della pura creatività. Offrendogli però in compenso — e questo è soprattutto il caso del suo ultimo film — una grazia e una sensibilità piuttosto rare nel cinema italiano più recente.
La qualità che più colpisce, infatti, vedendo Tutto quello che vuoi è la capacità di muovere due caratteri che potrebbero essere stereotipati — il giovane scioperato e menefreghista, il vecchio smemorato e sentenzioso — all’interno di un quadro che sa dar loro forza e verità. Poteva essere una nuova puntata di Scialla! dopo il mezzo passo falso di Noi 4 (soprattutto nel rapporto col pubblico) e invece il film prende una strada in perfetto equilibrio tra il sorriso della commedia e il realismo del (quasi) dramma, mentre accompagna lo spettatore dentro un cinema che rivela più qualità di quelle che possono apparire a prima vista.
Alessandro (Andrea Carpenzano) passerebbe tutte le sue giornate al bar con tre amici — Riccardo (Arturo Bruni, figlio del regista), Tommi (Emanuele Propizio) e Leo (Riccardo Vitiello) — ad aspettare non si sa cosa lamentanlegiando dosi del mondo se il padre (Antonio Gerardi) non lo spingesse, col «ricatto» dei soldi, a fare da accompagnatore a un vecchio signore insidiato dall’Alzheimer (Giuliano Montaldo), un poeta che sembra scivolare verso una smemoratezza sempre più feroce.
Quasi subito, però, il film abbandona il prevedibile «scontro» generazionale per diventare un più preciso scavo dentro le fragilità e le irrequietezze di una gioventù che ha perso i propri punti di riferimento e che finisce per rifugiarsi nella rabbia oppure in improbabili amori (qui affidati a Donatella Finocchiaro). E lo fa senza usare scene madri ma, monicellianamente, privi- le scene «figlie», quelle ai limiti dell’insignificanza, che permettono ad Alessandro (e allo spettatore) di scoprire il passato del poeta e anche ai tre amici del ragazzo di entrare senza troppi attriti nella sua vita. Scoprendo tutti insieme un segreto che riguarda l’adolescenza dell’uomo e risale alla Seconda Guerra Mondiale, capace di innescare una fuga sugli Appennini alle spalle Pistoia. E una romantica deviazione a Pisa.
Forse qualche svolta nella sceneggiatura può apparire un po’ meccanica (l’esagerata indigestione di Leo che permette ai due protagonisti di «abbandonare» gli amici comprimari per riannodare alcuni fili lasciati in sospeso), ma il film è attraversato da una sensibilità e una giustezza di tono davvero poco comune. Probabilmente perché molte scene hanno alle spalle un’esperienza direttamente «vissuta» (e non solo il vero Alzheimer del
Il ragazzo e il vecchio sentenzioso protagonisti di una storia attraversata da una sensibilità davvero poco comune
vero padre di Bruni, cui il film è dedicato) ma si respira sempre un’aria misurata e credibile, sia nei confronti/scontri tra Alessandro, il padre e la sua amante (Andrea Lehotska) sia nelle improvvise esplosioni di passione erotica che accende una ritrovata Finocchiaro.
Ma c’è anche un’altra qualità meno evidente e che però vale la pena di sottolineare. Ed è la giustezza del cast, il coraggio di non ricorrere ad attori prevedibili e usurati per dar vita a personaggi che non devono cadere nello stereotipo. Merito della sceneggiatura, naturalmente, che Bruni firma da solo, ma non solo. Il regista Giuliano Montaldo è perfetto nel dare verità al suo personaggio, Carpenzano sa superare certe iniziali legnosità ma è anche nella padrona di casa affidata a Raffaella Lebboroni che il film fa centro: essere diretta dal marito non è sempre un vantaggio (vedi il caso Benigni Braschi) ma qui le sue apprensioni, le sue divagazioni, le sue confessioni sanno rendere necessario un personaggio apparentemente secondario. Che un’attrice più popolare avrebbe rischiato di schiacciare per farla aderire alla propria personalità.