Corriere della Sera

A Seul vince Moon, il presidente del dialogo

Figlio di rifugiati e nemico della grande industria, vuole un ruolo forte per la Corea: agli Usa diremo anche no

- G. Sant.

DAL NOSTRO INVIATO Washington cerchi una forte pressione su Pyongyang per portarla al tavolo negoziale e credo che noi sudcoreani dovremmo prendere la guida di questo nuovo flusso di eventi, non possiamo restare a guardare», ha detto.

Sarà cruciale il rapporto che Moon saprà instaurare con Donald Trump. Il leader americano ha chiesto a Seul di pagare il conto dell’ombrello protettivo Usa: un miliardo di dollari per il Thaad, il sistema antimissil­e appena installato a Sud di Seul e molto controvers­o. «Bisogna imparare a dire anche dei no agli americani», ha detto Moon.

La vita del nuovo presidente è uno spaccato della storia e dell’ascesa della Repubblica di Corea: Moon, figlio di rifugiati nordcorean­i, da bambino faceva la fila per ricevere la razione di farina e latte in polvere dalle forze americane. Da studente universita­rio nel 1972 era stato imprigiona­to per aver protestato contro la dittatura militare che allora dominava Seul.

Ha servito nelle forze speciali dell’esercito. Un progressis­ta ma pubblicame­nte insensibil­e al problema della discrimina­zione e persecuzio­ne dei militari gay. Promette di Moon vorrebbe guidare un estremo tentativo di dialogo con Kim Jong-un tagliare i rapporti oscuri tra governo e grande industria (gli onnipotent­i e onnipresen­ti «chaebol» come Samsung e Hyundai), dice di volerli ridimensio­nare. Nessun presidente si è azzardato a farlo, ma i politologi di qui ci hanno descritto Moon come uomo onesto e coraggioso.

Noi guardiamo ora solo al 38esimo Parallelo e ai suoi cannoni, ma a Sud c’è l’undicesima potenza del mondo per Pil e il sesto Paese per esportazio­ni. Per molti sudcoreani la preoccupaz­ione principale è l’economia.

Però, c’è da sperare che il regime di Pyongyang colga ora questa nuova occasione di dialogo civile, forse l’ultima.

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