Venezia, ritorno agli artisti
La creazione al centro della Biennale. La curatrice: «Libertà all’immaginazione»
Dopo le sbornie ideologiche di Enwezor, le decostruzioni ermeneutiche e l’infatuazione per il digitale, dove va l’arte dell’Età post Internet? La risposta che la cinquantasettesima Biennale di Venezia, intitolata Viva Arte Viva (diretta da Paolo Baratta, a cura di Christine Macel, inaugurazione sabato) prova a fornire è quella del ritorno alla figura dell’artista e al suo porsi di fronte al fare arte. La fenomenologia della creazione artistica, un eterno interrogativo dell’Estetica, è qui risolto mostrando pragmaticamente cosa fanno gli artisti. Nel Padiglione centrale ai Giardini c’è chi dorme disteso sul letto (Yelena Vorobyeva e Victor Vorobyev), chi si stiracchia (Frances Stark), chi conversa (Franz West), chi, come le ventenni filippine postdigitali Katherine Nuñez e Issay Rodriguez, fa l’uncinetto al pari di una vecchia zia e infine c’è Dawn Kasper con il suo atelier nomade dove «le cose accadano». Dormire può essere sorgente di creatività, ma la miglior fonte di ispirazione sono per la curatrice i libri, qui artisticamente presenti nelle forme di enciclopedie bruciate (John Latham), ridotti a merce nel Supermarket di Hassan Sharif, esemplati in codici criptici nei Diaries dell’arabo Abdullah al Saadi.
L’altra fonte d’ispirazione — primum vivere — è il cibo: da oggi «Tavola aperta» con gli artisti; dimmi come mangi e ti dirò che arte fai. «Tutto questo rappresenta il momento dell’otium ideativo — spiega la curatrice —, che si oppone al negotium come pratica di lavoro con finalità collettive». E per esemplificare questo secondo aspetto scende in Laguna Olafur Eliasson, che tocca il vertice politically correct dell’esposizione coordinando un atelier degno di una Ong composto da studenti, migranti e apprendisti intenti a realizzare lampade rigorosamente Green light.
C’è molto «ésprit francese» in tutto questo, commenta Achille Bonito Oliva, una «prevalenza del femminile» per Bartolomeo Pietromarchi e una quasi totale sparizione dell’oggetto-quadro, «come se il quadro fosse una cosa da adulti, mentre qui siamo vicini a una esposizione più infantile e senza drammaticità», commenta Vittorio Sgarbi. Di contro, le opere esposte offrono un carnet di materiali diversissimi.
La mostra della Macel continua a essere intimista anche all’Arsenale, nei cui primi padiglioni, più che vivere, l’arte vivacchia con le costruzioni da comporre come Lego di Rasheed Araeen. Non ci sono emozione né pathos nelle prime stanze delle Corderie dell’Arsenale sino a quando si arriva a quello che Macel chiama Transpadiglione della Terra. Da lì in poi, un po’ affrancata da vincoli concettuali, l’esposizione si arricchisce di sensazioni, diventa un «libero gioco dell’immaginazione». I 44 tramonti di Charles Atlas (The Tyranny of Consciousness), opera realizzata appositamente per la mostra come lo sono circa 800 tra quelle dei 120 artisti esposti (pochissimi i nomi noti, sei gli italiani), inaugura una parata di arte come trouvaille: la natura che spunta dalle scarpe di Michel Blazy è arte viva, il Translate vase di Yee Sookyung, un pastiche pira-
nesiano che rimanda pure all’esposizione di Damien Hirst in corso a Palazzo Grassi, la grande tenda del brasiliano Ernesto Neto (Un Sagrado Lugar), una postazione per sciamani. Della consueta dissacrazione anticattolica si fa carico Pauline Curnier Jardin la cui Grotta Profunda, una Origine del mondo di Courbet aggiornata ai tempi, trasforma la Bernadette Soubirous di Lourdes (video lato A, facciata) in una adepta di de Sade (lato B, «profundo»). Le stanze finali delle Corderie, affidate ad artisti collaudati, sono un crescendo: per quanto un po’ déjà vu, la lacrima d’inchiostro che cola sulla sfera di Takesada Matsutani (1937) credo sia arte viva, come lo sono Scalata al di là dei terreni cromatici di Sheila Hicks (1934) e l’enorme Square di gocce di porcellana di Liu Jianhua della Pace Gallery di Pechino (opera del 2014).
Gli 86 Padiglioni nazionali (esordio per Antigua e Bermuda, Kiribati e Nigeria) presenti ai Giardini e all’Arsenale seguono in parte l’invito di Christine Macel a essere «luoghi di riflessione per l’arte e di salvaguardia dell’umanesimo di fronte ai conflitti e ai sussulti del mondo». Quello degli Stati Uniti, affidato a Mark Bradford (Tomorrow is another day), e quello della Gran Bretagna, di Phyllida Barlow (Folly), presentano forme di scultura organica che esaltano il contenuto materico e plastico dell’arte. I due padiglioni sono trasformati il primo in una grotta rinascimentale stile Buontalenti e il secondo in una Stonehenge di sacchi di juta diventati alberi, colonne, menhir... In una mostra priva di espliciti rigori ideologici, il Padiglione della Corea si prende gioco di lanciarne uno suo: Free orgasm/ Free Peep show/ Free Narcissistic people disorder/ Pole dance; l’arte è forma di liberazione sessuale, una tematica anni Sessanta presente in Sartre e nella Scuola di Francoforte qui in format trash asiatico, modello go-go-bar.
C’è poca storia passata nel presente di questa cinquantasettesima mostra salvo che nel Padiglione russo, per esempio, che rivisita il Theatrum Orbis Terrarum di Ortelius certamente più adatto alla Biennale curata anni fa da Massimiliano Gioni (ieri in visita, come Bice Curiger e altri ex curatori). Ma se parliamo di paradossi, cosa meglio del camion rovesciato diventato torretta di Erwin Wurm al Padiglione austriaco? Lì, fa coppia con le installazioni di Brigitte Kowanz sullo spaesamento nell’età digitale.
La camera sonora del Padiglione francese ci ricorda che le arti, nel primo umanesimo, erano tutto: arti del disegno, musica, poesia, danza, arte della cucina, agricoltura, arte del cavalcare, della guerra... e molto di questo è presente in una Biennale che riflette sull’arte nel suo farsi. E, quindi, anche sul rapporto tra osservatori e osservati, questi ultimi schiacciati sotto un vetro calpestato dai visitatori nella «stanza di concentramento» sado-maso del Padiglione tedesco di Anne Imhof. Questo Padiglione, trasformato sotto il Terzo Reich, sembra sempre dover fare i conti con il proprio passato: l’altra volta erano state abbattute le pareti per aprire ai migranti; questa volta è una «istituzione totale» circondata da dobermann. I quali, pur chiusi in una gabbia grande come un appartamento, hanno suscitato ieri le consuete lamentele degli animalisti. Attenzione: sarebbe in arrivo pure un pitone al Padiglione Venezia. Ma a questo padiglione e alla partecipazione italiana il «Corriere» dedicherà altri articoli nei prossimi giorni.
Suggestioni Ispirazione per questa rassegna è il cibo: da oggi «Tavola aperta» con gli artisti