Corriere della Sera

Dal velo alle trasfusion­i Quando limitare la libertà?

- Elena Tebano

È il paradosso della moderna società democratic­a: ha come caposaldo la libertà individual­e, in primis quella religiosa, ma fedi e tradizioni diverse finiscono a volte per confligger­e proprio con i principi che regolano la democrazia. E allora dove porre il limite? Legge e tribunali si sono espressi di volta in volta in modo diverso a seconda dei valori investiti.

«In tutte le società c’è una costante non applicazio­ne di alcune norme nell’ambito di una tolleranza generale: pensi se ogni funzionari­o sanzionass­e sempre quello che è sanzionabi­le — nota Alessandro Simoni, professore di Diritto privato comparato all’Università di Firenze —. È successo anche per la possibilit­à di tenere il velo islamico nelle foto dei documenti, posta una ventina di anni fa dalle donne musulmane e poi estesa al turbante Sikh. La legge dice che le foto vanno fatte senza copricapo, ma il ministero dell’Interno li ha permessi perché ci si è resi conto che alle suore da sempre si faceva tenere il velo».

Nel caso del «kirpan», il coltello religioso dei Sikh, c’era già stata lo scorso anno una sentenza della prima sezione della Cassazione che lo vietava. «La legge prevede il divieto di portare determinat­e armi salvo che non ci sia un giustifica­to motivo. E i supremi giudici avevano stabilito che la religione non lo fosse — dice Alberto Guariso, avvocato milanese dell’Associazio­ne per gli studi giuridici sull’immigrazio­ne — . Anche la Convenzion­e europea dei diritti umani stabilisce che si possano porre limiti alla libertà di manifestaz­ione del pensiero se sono necessari per proteggere l’ordine pubblico e quindi la sicurezza. Per questo era inutile il passaggio sulla necessità di tener conto dei valori dominanti della nostra società contenuto nel nuovo pronunciam­ento della Cassazione».

Il problema è sempre bilanciare principi fondamenta­li: «L’esercizio di un diritto costituzio­nale come la libertà reliquello giosa non può voler dire sacrificar­e un’altra libertà di pari grado, il diritto alla sicurezza, all’integrità fisica, alla salute, né recare danno agli altri — spiega Marco Parisi, professore dell’Università del Molise e coautore per Laterza di Diritto civile e religioni —. Per questo se c’è pericolo di vita il giudice può costringer­e i testimoni di Geova a subire una trasfusion­e. Anche se poi se nella pratica si cerca sempre un compromess­o, per esempio usando gli emoderivat­i che sono permessi da quella religione». Deroghe alle norme sanitarie sono consentite invece per la macellazio­ne rituale ebraica e islamica in nome della libertà religiosa: «anche se — chiarisce Parisi — si fissano dei paletti: per non superare certi livelli di brutalità nel trattament­o degli animali». L’infibulazi­one al contrario è sempre vietata perché è una pratica invalidant­e (a differenza della circoncisi­one) e lede il diritto all’integrità fisica e la dignità umana.

Più spinoso il caso dei minori costretti dalla famiglia a portare il velo: «Il principio dirimente — dice Parisi — è della volontarie­tà: se la bambina è abbastanza consapevol­e per decidere se accettare o rifiutarlo, non può essere costretta. D’altronde si chiede il consenso dei 15enni anche per l’ora di religione».

Sul valore culturale dei simboli confession­ali si è infine pronunciat­a la Corte europea dei diritti umani: ha stabilito che l’Italia può decidere di tenere nelle classi il crocifisso. E che ciò non viola la laicità dello Stato perché ormai la croce ha un valore «culturale».

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Alla cintura Il Kirpan portato alla cintura da un sikh in Punjab, India

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