Il suo «noir» che racconta la solitudine dei politici
Sono un apparatcik (burocrate di partito, ndt). Lo sono sempre stato. Non mi sono mai ritenuto un uomo politico. Ne so abbastanza di molti colleghi che hanno desiderato oltrepassare il confine. Alcuni ci sono abbastanza riusciti. Non sono tanti e non mi piacciono (...).
Nel mio mondo, i politici e gli apparatcik convivono. Né gli uni né gli altri possono sopravvivere da soli. Tutti quelli che si sbagliano sul mondo a cui appartengono sono dei disastri viventi.
L’apparatcik è un guerriero che serve un maestro, un professionista che conosce il suo ambiente, utilizza le sue armi, para i colpi diretti al suo padrone. È un motore, un organizzatore, un ispiratore, un suggeritore. È il braccio, l’orecchio e, a volte, il cervello del politico.
Un politico è altra cosa. È la capacità di incarnare, la volontà di proiettarsi verso gli altri, un’empatia animale (...) È l’attitudine a sentire e toccare le persone, a far loro capire che si è al contempo come e diversi da loro, capaci di comprenderli e quindi al di sopra di loro.
Un politico vive per essere considerato, ascoltato, per convincere: che la sua posizione è quella corretta, che le sue idee sono le più giuste (...).
A parte essere eletto, ho fatto tutto. Ho organizzato le trasferte e i meeting, scritto o corretto centinaia di discorsi, partecipato a migliaia di riunioni (...).
Conosco le gioie intense che questo ambiente procura. I picchi di adrenalina, i rari amici fedeli, lo spirito di cameratismo che lega persone che vogliono la stessa cosa.. Conosco pure gli aspetti meno piacevoli. I piccoli tradimenti, i compromessi bavosi, le rinunce patetiche. Vivo da più di trent’anni in un mondo in cui la gente è più perfida o subdola della media. Ho sempre tollerato questo aspetto del mio lavoro perché è la contropartita di ciò che amo. (Traduzione Assomediatorilinguistici.org)