Agnelli testimone a processo del figlio ultrà del boss «Incontri sì, ma per il tifo»
I rapporti con «il figlio del boss» ci sono stati, ma soltanto insieme ad altri esponenti del tifo organizzato. E soprattutto senza la consapevolezza di avere di fronte un indagato di ‘ndrangheta. Andrea Agnelli è tornato, ieri in Tribunale a Torino, a ribadire la sua estraneità dalla criminalità mafiosa, che secondo la procura di Torino si sarebbe infiltrata nella curva bianconera da anni. Il presidente della Juventus è arrivato al Palagiustizia dopo le 10, entrando da un ingresso secondario, senza farsi immortalare dalle telecamere.
Agnelli è stato sentito per poco meno di un’ora come testimone al processo «Alto Piemonte», che vede alla sbarra 23 indagati, tra cui Rocco e Saverio Dominello, figlio e padre, considerati dai pm Monica Abbatecola e Paolo Toso esponenti della malavita calabrese, in grado di guadagnare anche tremila euro a testa a partita con il bagarinaggio. Saverio Dominello si è dissociato dalla ‘ndrangheta alcune settimane fa, facendo spontanee dichiarazioni in udienza, dopo aver ammesso l’affiliazione e gli affari con i biglietti. Il figlio Rocco invece, esponente dei Drughi di Montanaro, respinge da sempre ogni addebito.
I suoi difensori, gli avvocati Domenico Putrino e Ivano Chiesa, hanno sottolineato: «Il nostro assistito è incensurato ed estraneo alla ‘ndrangheta, in nessun passaggio delle carte dell’indagine esiste una sola frase o intercettazione che prova il contrario». Erano stati proprio i legali di Dominello a chiedere l’audizione di Agnelli, che ha confermato: «Ho incontrato alcune volte Dominello, una volta quando era venuto con Fabio Germani (indagato di 416 bis, ndr) a portarmi un regalo di Natale, un’altra quando era con i rappresentanti dei gruppi, ma si parlava solo di tifo organizzato». Agnelli, dopo aver chiarito ancora una volta di non aver subito alcuna pressione dalla ‘ndrangheta, ha sottolineato: «Nessun mio dipendente mi ha mai riferito nulla di anomalo. Non avendo mai avuto segnalazioni di persone sospette da parte della Digos, eravamo tranquilli». E poi: «Non c’erano trattamenti particolari per i gruppi e sui biglietti non ero a conoscenza di nulla, ma avevo dato indicazione che tutto venisse rigorosamente pagato».
L’avvocato di Dominello, Putrino, uscendo dalla maxiaula uno ha aggiunto: «Agnelli ha detto che nessuno dei suoi 700 uomini dell’organizzazione Juve, né la Digos, in contatto quotidiano con loro, aveva mai manifestato che il mio assistito potesse essere vicino ad ambienti mafiosi. Anzi, diceva che a differenza degli altri con lui si poteva ragionare». I pm Monica Abbatecola e Paolo Toso ritengono non rilevante la testimonianza del presidente della Juve, che verrà sentito giovedì a Roma in commissione antimafia, che vuole approfondire gli interessi delle organizzazioni criminali nel calcio. Il 26 maggio è previsto l’inizio del processo sportivo. Presidente Andrea Agnelli, 41 anni, alla guida della Juventus dal 2010 (Ipp)
Può una sola partita, anche se è importante come Roma-Juventus, cambiare uno scenario già disegnato? Difficile, non impossibile. Spalletti si è preso i fischi dalla curva giallorossa alla lettura delle formazioni. Il tema era chiaro: l’umiliazione inflitta a Totti sette giorni prima, quando lo ha tenuto in panchina per 90’ contro il Milan, mentre tutto lo stadio lo voleva in campo per il saluto a San Siro. Ma è lo stesso Spalletti che, nel tribunale dei social e dell’etere romano, ha riguadagnato consensi dopo il 3-1 alla Juventus. Domenica sera Totti è entrato in campo nel recupero, per due minuti, e non ha toccato mai il pallone. Alla fine è filato negli spogliatoi, senza andare con i compagni sotto la curva Sud, perché per lui era come non essere mai entrato. La faccia scura, lo sguardo in direzione ostinata e contraria a quella di Spalletti, che forse voleva stringergli la mano ma ha presto desistito. È andato via dall’Olimpico da un’uscita secondaria. Spalletti ha detto spesso: «Non va bene se non lo faccio entrare, non va bene se lo faccio entrare». In realtà, non tutte le gare sono uguali: contro il Milan, che vagava come un pugile suonato, c’era lo spazio per dare a Totti un minutaggio decente; contro la Juventus, che aveva buttato in campo i titolari dalla panchina, era un’altra faccenda. Ma quando un rapporto non funziona si perde la capacità di capire le ragioni dell’altro. La domanda è: dopo l’addio del 28 maggio — a cui sarà presente anche Pallotta — Totti e Spalletti potranno lavorare insieme, uno come dirigente e l’altro come allenatore? Monchi, intervistato dalla tv Bein Sports Usa, si è preso l’incarico: «Il potenziale che ha Francesco è così grande che speriamo di poterlo utilizzare. Conosce la Roma meglio di chiunque altro e io, che sono un nuovo arrivato, avrei un ottimo insegnante per scoprire tutto C’è un’unica destinazione che potrebbe convincere Francesco a giocare ancora: Miami, dove allena l’amico Nesta