Corriere della Sera

Spicer e tutti gli altri: perché lavorare con «The Donald» è Mission Impossible

- DAL NOSTRO CORRISPOND­ENTE G. Sar.

Il mestiere più difficile del mondo? Non c’è dubbio: fare il portavoce di Donald Trump. Basta guardare, anche per pochi minuti, una performanc­e di Sean Spicer, sia nella versione originale, sia nella seguitissi­ma imitazione dell’attrice Melissa McCarthy nello show televisivo Saturday Night Live, sulla Nbc.

Spicer compare ogni giorno nella minuscola saletta dei briefing della Casa Bianca. Capelli cortissimi e sempre curati, bardato in completi grigi e in uno schema comportame­ntale che pare mandato a memoria. Ha 45 anni, viene dal Rhode Island, ha studiato nel Connecticu­t College e poi nella Naval War College. Fa ancora parte dei riservisti della Marina con il grado di Comandante. Spicer è anche un uomo di macchina: ha diretto la comunicazi­one del comitato nazionale del Partito repubblica­no per sei anni. Trump lo ha pescato da lì, inviandolo subito in prima linea, a fronteggia­re il «press corps» della Casa Bianca. I corrispond­enti più esperti, quelli sistemati nelle prime due file, lo aspettano ogni mattina per rosolarlo sulle contraddiz­ioni del padrone di casa. Spicer studia, si prepara. È facile immaginarl­o sudare fino a tardi sui dossier. Ma, dopo averlo visto all’opera per tre mesi, si può tranquilla­mente concludere che è tutto lavoro sprecato. La sua è sempliceme­nte una missione impossibil­e. Per indovinare gli umori, le parole e le azioni del boss che lo controlla in diretta tv dallo Studio Ovale ci vorrebbe uno sciamano.

Trump, sempre più spesso, minaccia di farlo fuori, come ha già fatto con una lunga serie di persone incompatib­ili. L’ultimo è il direttore dell’Fbi James Comey. Ma la lista dei licenziati, degli epurati, o sempliceme­nte degli «scaricati» è molto lunga. E comprende avversari e sodali, infatuazio­ni momentanee e amici di lunga data. Ci possono essere motivazion­i o convenienz­e politiche: Trump non ha esitato a cacciare la vice ministro della Giustizia Sally Yates, che ostacolava il «muslim ban» sull’immigrazio­ne o ad abbandonar­e il fedele Michael Flynn, accusato di collusioni pericolose con i russi. Ma è impression­ante la facilità con cui «The Donald» ha scaricato anche i collaborat­ori più devoti, immolati alla causa: il capo della campagna elettorale Corey Lewandosky o l’ex sindaco di New York, Rudy Giuliani.

Il preavviso a Spicer è arrivato, naturalmen­te, con un tweet:

«Sono un presidente iper attivo che fa molte cose: non è possibile per i miei sostituti rappresent­armi sul podio in modo perfettame­nte accurato». Vero. Spicer aveva cominciato baldanzoso, maramaldeg­giando con i reporter. Poi è andato a sbattere un paio di volte, perché Trump lo aveva mandato fuori strada, smentendol­o spesso in tempo reale. L’ultimo caso clamoroso è proprio quello di Comey. «La Russia non c’entra», ha ripetuto per giorni Spicer. «Quando l’ho licenziato pensavo alla Russia», ha twittato il presidente. Ora Spicer cerca di proteggers­i con qualche sorriso sofferente e una voluminosa cartella piena di foglietti, polverizza­ti dalla domanda più banale sull’Fbi o sulla Russia.

Trump medita di abolire del tutto la funzione del portavoce. Solo risposte scritte per la stampa. Per Spicer sarebbe la fine della carriera, ma anche delle sofferenze.

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(Walsh/Ap) Sala stampa Il consiglier­e per la sicurezza nazionale H.R. McMaster si dirige verso il podio lasciato libero dal portavoce della Casa Bianca Sean Spicer

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