Corriere della Sera

Quadri, foto e calzature Ritratto di un maestro che misurò il suo tempo

Nelle otto sale dell’esposizion­e si snodano opere di Maccari o Ponti (oltre alle scarpe)

- Di Marco Gasperetti mgasperett­i@corriere.it

Sugli scalini, trasformat­i in una passarella di un improbabil­e piroscafo, si ha la sensazione di scendere davvero dal lussuoso transatlan­tico Roma che quell’anno formidabil­e, il 1927, aveva sbarcato a Genova o forse a Napoli un giovane italiano, ormai uomo di successo, restituend­olo alla sua terra natale dopo tredici anni di durissimo lavoro sulle ali di un sogno americano.

E quasi si respira il profumo di quell’atmosfera quando s’intravedon­o i suoi documenti originali, le foto delle dive dell’epoca e i modelli delle scarpe che gli fecero conquistar­e gloria e ricchezza. Poi, l’olio su tela di Mino Maccari, con la famosa scatola con la scritta Italy, appare come una finestra premonitri­ce, che annuncia il futuro successo delle esportazio­ni italiche, ma anche il Ritorno, di quel «ragazzo» partito poco più che sedicenne in terza classe per fare fortuna.

A novant’anni dal ritorno in Italia di Salvatore Ferragamo, fondatore di uno degli imperi mondiali della moda, il museo a lui dedicato nel maestoso Palazzo Spini Feroni, la dimora medievale che si apre su via de’ Tornabuoni a Firenze sede della maison, gli dedica una mostra «1927 - Il Ritorno in Italia», che attraverso il viaggio, assimilato a metafora, ripropone la storia del grande stilista insieme alle atmosfere degli anni Venti. Una fucina d’innovazion­e e sperimenta­zione, nella quale (come ci propone l’allestimen­to delle

otto sale) artigianat­o e arte, folclore e avanguardi­a, embrioni di femminismo e una visione rivoluzion­aria dell’estetica del corpo e degli oggetti che lo vestono e lo rappresent­ano, si ibridano. «Un’omogeneità di vedute — spiega Carlo Sisi, il curatore — ricostruir­e attraversa­ndo i fermenti di quegli anni nei quali Ferragamo, artigiano-artiere, sintetizza la figura del creatore che attinge sempre alla conoscenza e alla cultura del suo tempo». Un demiurgo, dunque,

rappresent­ato nella mostra dal suo spirito più profondo e dalle opere che influenzar­ono la sua officina. Come i tesori custoditi dal collezioni­sta Stibbert per realizzare scarpe così raffinate da sfiorare la pienezza dell’opera d’arte. E ancora le suggestion­i delle opere di Maccari, Martini, Thayaht, Gio Ponti, Rosai, Balla, Depero che insieme ad altri grandi del Novecento illuminano il percorso. Ma non solo. Nella terza sala, quella che ci immerge nel folclore e nelle arti decorative di quei tempi, si sfiorano i temi del rinnovamen­to e dell’ispirazion­e che lo stesso Ferragamo avrebbe assimilato e introietta­to per le sue creazioni. «Una ricerca che è volontà di rilanciare, anche attraverso l’etnografia, quell’artigianat­o che poi nel Dopoguerra avrebbe trionfato come design italiano», spiega Stefania Ricci, la direttrice del Museo Ferragamo. Ed eccoli allora i manufatti sardi di Federico Melis, quelli romani di Duilio Cambellott­i, accanto all’alfiere del Triveneto Vittorio Zecchin.

Ecco i flash futuristi di Fortunato Depero. Nella quarta sala è l’emancipazi­one femminile (alla quale anche lo stilista Ferragamo partecipa) a rivelare il carattere dei tempi con le immagini e le storie delle donne che scrivono capitoli gloriosi di donne-fotografe, donne-scrittrici, donne-attrici, donne-politiche. La mostra è una continua sorpresa. Anche multimedia­le. Ci sono scene videoripre­se dallo stesso Ferragamo nel giorno del «ritorno» nelle quali lo stilista inquadra e già interpreta una Firenze che lo sedurrà per sempre. E in una sala c’è la riproduzio­ne multimedia­le del ponte del Roma in navigazion­e. Un’immersione stile realtà virtuale, un amarcord.

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Sulla rivista Salvatore Ferragamo prende le misure, da «Bazar» del 1928

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