Malignità e litigi tra coniugi consumati sul ring dell’odio
Un ricordo personale. Nel 1986 a Friedrich Dürrenmatt fu conferito il premio Mondello per il romanzo Giustizia. Ebbi la fortuna di una lunga conversazione. Ma il ricordo è il suo senso di liberazione nel poter parlare senza che la moglie, l’attrice Charlotte Kerr, sposata in seconde nozze due anni prima, tentasse d’impedirgli i contatti con i giornalisti, anzi con chiunque.
Leggendo Play Strindberg, sebbene con un sorriso, questo ricordo diventa ineluttabile. Play Strindberg del 1969, e che è in scena all’Eliseo di Roma per la regia di Franco Però, è una commedia molto particolare. Non è proprio il Don Chisciotte vagheggiato da Borges, identico a quello di Cervantes, ma di molto si avvicina a quel sogno. Si presenta alla lettura come un testo identico a Danza di morte di August Strindberg, del 1900, ed è tuttavia da quello assai diverso. Che fece Dürrenmatt? Tagliò, sfoltì, disseccò.
Ma questa non fu una normale operazione di riscrittura o adattamento; fu un’autentica rivoluzione. Lo spettatore contemporaneo poteva ancora sopportare quella carneficina, quella malignità, quei battibecchi, quel ping-pong dell’odio tra coniugi con in più il peso della loro sin troppo argomentata psicologia? I caratteri, chiamiamoli così, di Edgar e di Alice erano ormai fin troppo noti e troppo singolari, troppo specifici. Non sarebbe stato più ragionevole mettere in scena due personaggi nudi, asciutti, all’essenziale della questione, ovvero all’essenziale della questione matrimonio? Così Edgar e Alice in didascalia divennero Ee A, come l’amante-cugino di Alice, Kurt, divenne un semplice K: l’universale e sempre ripetibile amante di ogni donna sposata.
Ne sortì una commedia nuova, scintillante, meravigliosa: per secchezza, rapidità, per brutalità, ironia, per il sarcasmo con cui l’autore si pone di fronte a quei due lottatori e al loro arbitro — poiché Ee A altro non sono che due boxeur (l’azione è circoscritta dalla corde di un ring) e K una specie di arbitro. Ebbene, che succede nello spettacolo di Però? Tutto il contrario di quanto da Dürrenmatt previsto.
I dialoghi sono quelli dello scrittore svizzero ma lo spirito è quello dello scrittore svedese: il naturalismo vi si mostra come forza irresistibile, trascina gli interpreti (Maria Paiato, Franco Castellano e Maurizio Donadoni) fino al ridicolo espressionista, o semi-espressionista.
A volte perfino si sorride, i tre tentano di girare la chiave dell’ironia, si ricordano che ciò che stanno recitando non è proprio Strindberg ed è come avessero un soprassalto di coscienza. Pure, i due lottatori si fronteggiano con le mani sui fianchi, ridono-ridacchiano, Alice si mette a ballare, litigano (come se litigassero sul serio: là dove in Dürrenmatt tutto è troppo serio per esserlo davvero), quando parlano a K dei figli lo fanno con vanità, tra Ke A cogliamo occhiate di complicità — come fossero davvero, o fossero stati, amanti. Più il discorso di tutti perde credibilità più lì, sulla scena, esso si intensifica in una ricerca di inutile, realistica verità.