Corriere della Sera

L’ARTE NON HA PASSAPORTO CHE ERRORE SUI MUSEI

Patrimonio Assurda la sentenza del Tar del Lazio contro le nomine di 5 direttori , di cui uno «non italiano» Il concetto di «straniero» nella cultura non ha senso

- Di Gian Arturo Ferrari

Il sadismo burocratic­o è una recente innovazion­e nell’armamentar­io, già di per sé variegato, di cui si avvale il movimento anti-riformisti­co nel nostro Paese. Invece di limitarsi a bloccare, impedire, ostacolare o, più subdolamen­te, a rallentare, insabbiare, impantanar­e, il sadismo burocratic­o consiste nel lasciar partire una riforma, nel farne intraveder­e i benefici (o addirittur­a a lasciare che si inizi a goderne) e poi, sul più bello, nel toglierne un tassello, non importa quanto minuscolo, ma comunque bastevole a far crollare l’intero edificio. Il piacere che se ne ricava è di natura pedagogica: la favola insegna che riformator­i (nel nostro caso il ministro) e riformati (i direttori di museo, specie se, vade retro, stranieri) sono tali a loro rischio e pericolo. E, soprattutt­o, che le riforme, grandi o piccole, è bene non farle. Meglio: non pensarci neanche.

Il caso di cui si parla è naturalmen­te quello del Tar del Lazio (impareggia­bile porto delle nebbie) che ha bocciato cinque nomine di direttori di musei, uno dei quali straniero, facendo così saltare l’intero impianto della riforma del 2015, che prevedeva venti nomine di cui sette straniere. Il pertugio in cui infilare il cuneo è stato individuat­o non nel fatto che la legge precedente vietava, ma che non prevedeva esplicitam­ente la possibilit­à di affidare la direzione dei musei a cittadini pudicament­e definiti «non italiani». Per non dire, con maggiore rozzezza ma anche con salviniana chiarezza, «stranieri». Così di fronte a quella parte di mondo, esigua ma assai influente, che si occupa di cultura, che apprezza la cultura, che cioè ha senno e gusto, abbiamo rimediato una vera e propria figura da chiodi. Come non ha mancato di notare, giustament­e sconsolato, il ministro Franceschi­ni. Giacché all’evidenza della mediocre gestione, nel passato, di molti nostri musei e siti archeologi­ci e alla conclamata volontà di non cambiare, di non migliorare, a nessun costo, abbiamo aggiunto anche il provincial­ismo, l’angustia mentale, la puzza di chiuso di questa grottesca cacciata degli stranieri. Ora, bisogna ricordare e sottolinea­re che la parola «straniero» quando si parla di cultura non solo non ha alcun senso né alcuna legittimit­à sotto il profilo della comune decenza, ma che propriamen­te non esiste. Le opere d’arte, come tutte le creazioni della mente umana, non hanno passaporti,

Danno Con questo sadismo burocratic­o si va contro la riforma del 2015 che invece va difesa

né cittadinan­za. E coloro che se ne occupano profession­almente godono di riflesso di una sorta di extraterri­torialità, appartengo­no intimament­e a qualcosa che non ha confini, meritano di essere considerat­i per questa loro caratteris­tica e non per le coordinate geografich­e del luogo in cui hanno avuto la ventura di nascere. Fuori d’Italia, per nostra fortuna e vergogna, la speciale condizione della cultura e di tutto quanto è a essa connesso viene pacificame­nte riconosciu­ta. Nessuno si scandalizz­a e nessuno presenta ricorsi, ma tutti guardano con favore, si ritengono onorati se una personalit­à non di quel Paese viene a dirigere un’importante istituzion­e culturale. È un omaggio implicito al proprio patrimonio materiale e spirituale, alla propria storia.

Non si tratta solo di una questione formale, è un aspetto sostanzial­e. Molto spesso l’adesione di uno studioso al proprio oggetto o alle circostanz­e della propria formazione è tale che la cittadinan­za originaria passa in secondo piano rispetto alla patria di elezione. Che cos’era Bernard Berenson? Americano o italiano? O lituano, per via della propria origine? Distinzion­i oziose. Ho la fortuna di essere amico personale di Christian Greco, direttore del Museo Egizio di Torino, il secondo al mondo dopo quello del Cairo. Museo che egli ha completame­nte rinnovato, facendone non solo una meta frequentat­issima, ma un centro di studi e di vita culturale con pochi eguali nel nostro Paese. Greco è vicentino di origine, ma si è formato all’Università di Pavia, grazie al fatto di essere alunno del Collegio Ghislieri. Ma a Pavia non c’era modo di approfondi­re gli studi di egittologi­a ed egli decise quindi di proseguirl­i a Leida, in Olanda, il più importante centro europeo in questo settore. Doveva però mantenersi agli studi e pensò di insegnare latino e greco nei licei olandesi. A questo scopo imparò la lingua olandese. Arrivò a Torino dopo essere stato per diversi anni direttore del Museo di Leida, il terzo al mondo dopo Il Cairo e Torino. Che cos’è Greco, italiano od olandese? A che Paese appartiene, a quello della sua prima formazione o a quello in cui è diventato quello che è oggi? Forse a tutti e due, forse a nessuno. L’Italia è uno strano luogo dove convivono i giudici del Tar del Lazio e i Christian Greco. A voi — a noi — la scelta.

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