Assalto al bus: strage di copti
Strage in Egitto. «I terroristi si riprendevano durante l’esecuzione»
Attacco a un bus di cristiani copti. Gli automezzi erano diretti verso il monastero di San Samuele, 220 chilometri a sud del Cairo. Un commando ha aperto il fuoco: almeno 28 le vittime, anche due bimbe. Un testimone ha raccontato che gli assalitori sarebbero saliti a bordo del bus e avrebbero iniziato a sparare mentre uno di loro filmava il massacro. Il presidente egiziano al Sisi ha ordinato raid aerei contro i campi di addestramento dei jihadisti a Derna, in Libia.
Stavolta li uccidono senza rischiare nulla. Neanche la fatica di superare i pochi poliziotti distratti che il governo egiziano piazza davanti alle chiese copte, com’è accaduto ai kamikaze nella Domenica delle Palme. Stavolta c’è solo da aspettare fra Ben Suef e Minya, un bus bianco e una piccola carovana d’auto che procede nella quiete del deserto, per i 15 km che ancora mancano al monastero di San Samuele Confessore. I pisolini, le chiacchiere, le risate d’un pellegrinaggio, prima della deviazione dall’autostrada verso la pista sterrata. D’un tratto, tre suv messi di traverso a un posto di blocco e di morte. Otto, forse dieci terroristi. Tutti in divisa, i volti coperti da commando speciale, come usa l’Isis quando vuol far capire qual è il vero esercito. Nessuno può dare l’allarme coi cellulari, perché lì non c’è campo. I killer fermano il pullman, salgono a bordo. Prima rubano i soldi e l’oro, poi ordinano di recitare il Corano, alla fine puntano le armi alla testa. Un’esecuzione: gli assassini sanno già che lì dentro ci sono solo cristiani. Ne ammazzano almeno 28, due bambine di quattro e due anni, ne feriscono altri ventidue. «Non stavano andando a fare una crociata, non portavano neanche un’arma», dice commosso il portavoce della Chiesa copta, Rafiq Grech: «Stavano solo andando a pregare. Sono martiri».
Facile, colpire bimbi e mamme. Che ascoltino una cantante pop a Manchester o cantino inni religiosi in Egitto. La tv pubblica dice che solo tre ragazzini si sono salvati per caso, gli altri sono tutti all’ospedale. Nelle immagini si vedono le lamiere traforate, i vetri in frantumi, i sedili insanguinati, una cinquantina d’ambulanze, diversi corpi coperti con teli di plastica nera, dieci adulti rovesciati nella sabbia fra pozze rapprese e nerastre. L’audio fa rimbalzare un sottofondo d’urla ancora terrorizzate, un’ora dopo l’attacco.
Anche i terroristi si sono fatti un video mentre sparavano, racconta un testimone: lo vedremo su qualche sito, se arriverà la rivendicazione.
A Minya, dove i cristiani sono il 35% e i fondamentalisti islamici di più, un centinaio di copti protesta per le strade: il presidente Al Sisi cancella le celebrazioni d’inizio Ramadan, proroga lo stato d’emergenza, già in vigore per la visita del Papa, e ordina all’Aviazione di bombardare «campi di addestramento» vicino a Derna, in Libia. S’aspettano pene esemplari per i 48 jihadisti arrestati dopo le stragi d’aprile e di dicembre, 61 morti in tre chiese. Ma a che serve, se a proteggere i cristiani da quest’anno orribile non c’è una mobilitazione del mondo islamico? L’imam dell’università Al Azhar e il Gran Muftì del Cairo, sunniti, condannano «l’uccisione di nostri fratelli e sorelle», lo stesso i Fratelli musulmani, la Lega araba e naturalmente gli sciiti di Hezbollah («un nuovo crimine d’una banda d’assassini»).
Qualche segno di rivolta all’Isis nel Sinai, dove le tribù beduine hanno cominciato a collaborare con la polizia egiziana. Per il resto, silenzio o poco altro: dalle petromonarchie del Golfo come da quell’Arabia Saudita che Donald Trump, nel suo viaggio mediorientale, ha appena invitato a uscire allo scoperto. C’entra anche l’insofferenza per al Sisi: solo qualche giorno fa, il Qatar aveva protestato col Cairo per la chiusura del canale web di Al Jazira, censurato assieme ad altri venti siti critici verso il regime egiziano. Gli emiri se la prendono col generale, spesso a ragione. Ma sul resto, zitti e moschea.