Corriere della Sera

«Ero sconvolto Uscito di cella evitavo le donne persino in strada»

- di Pierpaolo Lio

La mano disegna un ampio gesto: sembra quasi spingere via i ricordi. «Cerco di non pensarci più». Ma è difficile. Quei tre anni d’inferno pesano terribilme­nte. E quando si decide a ripercorre­rli, Maurizio Minora, professore oggi in pensione, accusato ingiustame­nte di molestie sessuali e poi pienamente scagionato, non può far altro che afferrarsi il capo. Uno scatto deciso, mentre la voce inciampa, gli occhi sfuggono via ancora increduli: «Come si può spiegare cosa ho vissuto? C’è qualcuno che mi chiederà scusa? Chi mi risarcisce di tutto questo?».

Professore, cosa le ha fatto più male di questa vicenda?

«Ho la fortuna di saper dimenticar­e le cose brutte. Ma è stato comunque difficile. I primi tempi, appena libero, avevo il terrore di ritrovarmi solo in ascensore con una donna, se vedevo arrivare una ragazza sul mio marciapied­e, cambiavo strada. Ero stravolto. Per fortuna la famiglia e gli amici mi sono stati sempre vicini».

Ha provato a darsi una spiegazion­e?

«Ho cercato di capire, ma non sono riuscito a darmi una spiegazion­e per tutto. Dire “malagiusti­zia” è poco. Le incongruen­ze erano evidenti fin dall’inizio: questa cosa non doveva neanche iniziare».

Ha mai pensato a cosa direbbe alle ragazze che l’hanno accusata?

«Ci ho pensato per mesi. Ma guardi, in questo processo sono gli adulti che non ho capito: il gruppo della polizia locale che nel corso delle indagini ha commesso forzature ed errori; la preside che non ha saputo gestire la situazione; alcuni colleghi che covavano rancori e antipatia verso di me; i giudici che mi sembrava mandassero avanti il caso quasi per inerzia. E poi: quanto denaro pubblico è stato speso per tutto questo?».

Il carcere, poi i domiciliar­i: come s’è fatto forza?

«Mi sono imposto di non avere tempi morti: ogni momento della giornata ero impegnato a fare qualcosa. Al mattino rispondevo alle tantissime lettere, oltre trecento, che ho ricevuto in quei mesi da amici e colleghi, da ex studenti e dai loro genitori. Ho ripreso in mano la chitarra. Leggevo, guardavo qualche film, dipingevo. Era l’unico modo per tirare avanti».

Il giorno dell’assoluzion­e?

«Gli avvocati l’hanno forse vissuta come una vittoria. Non io. Per me è stato un atto dovuto: finalmente, dopo quasi tre anni, si sono accorti della mia totale innocenza».

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