Gli stranieri a capo dei musei italiani? I giudici sono uguali, i giudizi opposti
Le nomine bocciate dal Tar avevano avuto il parere positivo di un magistrato del Consiglio di Stato
«Per i nemici le leggi si applicano, per gli amici si interpretano». Nessuno può dire con certezza se Giovanni Giolitti abbia mai pronunciato questa frase che da un secolo o giù di lì viene a lui attribuita. Di sicuro, però, l’aforisma (forse) giolittiano contiene una verità: che nel Paese considerato patria del diritto le leggi soprattutto si interpretano.
E poco importa se per gli amici o i nemici, perché si possono interpretare in un senso oppure nel suo opposto. Indifferentemente. Anche da giudici della stessa magistratura. L’ultimo straordinario esempio di strabismo interpretativo ci viene offerto dalla bocciatura inflitta dal Tar del Lazio alle nomine fatte con le selezioni internazionali fortemente volute dal ministro dei Beni culturali Dario Franceschini che per la prima volta aveva aperto le porte dei musei italiani a direttori stranieri. Come l’austriaco Peter Assmann,
da oltre un anno e mezzo alla guida del Palazzo Ducale di Mantova, e ora prontamente finito in naftalina.
Argomentano senza dubbio alcuno i giudici del Tribunale amministrativo del Lazio Leonardo Pasanisi, Stefano Toschei e Francesco Arzillo, che «il bando di selezione non poteva ammettere la partecipazione al concorso di cittadini non italiani». Dunque la nomina di Assman è illegittima.
Altrettanto chiaramente, però, il capo dell’ufficio legislativo dei Beni culturali, in una nota per il ministro Franceschini propedeutica a quella selezione firmata insieme al suo collega della Pubblica amministrazione Bernardo Mattarella, dice l’esatto contrario: «Non solo non sussiste alcun impedimento giuridico al conferimento dell’incarico di direttore di museo statale a stranieri, ma in base a giurisprudenza consolidata della Corte di giustizia dell’Unione Europea sarebbe in violazione del diritto europeo e nazionale riservare detto incarico a cittadini italiani».
E si dà pure il caso che l’estensore di questo parere insieme a Mattarella sia il consigliere di Stato Paolo Carpentieri. Dunque un magistrato amministrativo, collega di Pasanisi
e degli altri giudici del Tar. Non solo: in quanto consigliere di Stato, potenzialmente giudice d’appello del medesimo Tar. E dunque per coerenza, se gli dovesse mai toccare un ricorso contro questo pronunciamento del Tar Lazio, non potrebbe che ribaltarlo.
Il punto di contrasto è l’articolo 38 del decreto legislativo 165 del 2001. Lì c’è scritto che i cittadini dell’Ue possono, sì, accedere alle amministrazioni pubbliche. Ma con l’eccezione di quelle che «non attengono alla tutela dell’interesse nazionale». Ebbene, nella bocciatura del bando Franceschini, il Tar sostiene che i cittadini stranieri non potevano essere ammessi alla selezione perché «nessuna norma derogatoria consentiva al ministero dei Beni culturali di reclutare dirigenti al di fuori delle indicazioni, tassative, espresse» da quel famoso articolo 38.
Proprio l’opposto di quanto affermato, due anni fa, da Carpentieri insieme a Mattarella, secondo cui quella deroga esiste, ed è nel decreto legge 83 del 2014 sulla riforma dei musei statali. Dove l’articolo 2-bis prevede testualmente di «adeguare l’Italia agli standard internazionali in materia di musei». Ciò basta, scrive Carpentieri, per rappresentare «un’eccezione alla disciplina italiana come stabilita dall’articolo 38 del decreto legislativo 165 del 2001». La deroga, in sostanza, eccola qui. Ma i giudici del Tar contestano l’interpretazione del consigliere di Stato, con la motivazione che «se il legislatore avesse voluto estendere la platea» agli stranieri «lo avrebbe detto chiaramente».
E per pietà dei lettori, nonché carità di patria (sempre la patria del diritto, ovvio, anche se non proprio della sua certezza), ci fermiamo qui.
Il paradosso Il verdetto smentito in via preventiva: «La giurisprudenza della Corte Ue prevale»