Dirty Dancing, Chi ha paura della (nostra) vera Baby?
stato il film della nostra adolescenza, il più iconico, il più sacro. Il mambo, Patrick Swayze, quel sollevamento in acqua. Se sei cresciuta a pane e Videomusic, c’è stato un tempo in cui hai pensato che portando un cocomero avresti trovato l’amore — o almeno una storia sexy. Da Footlose a Endless Love, un’orda di remake si è avvicendata a massacrare i film degli Anni 80, ma Dirty Dancing sembrava intoccabile. Celebrazione di un momento, nella storia — l’estate del ’63 — in cui tutto sembrava cambiare in meglio. C’è stato un prequel, il flop Havana Nights (2004), ma dell’originale aveva solo mezzo titolo. Invece, a trent’anni da quel 1987, sulla tv Usa va in onda il remake, e il cocomero è della forma sbagliata (e la battuta leggendaria «ho portato un cocomero» diventa «ho portato il suo cocomero»). Il film più sexy di una generazione sembra una produzione Disney. L’ennesimo, annacquato, adattamento Millennial. Non c’è passione nel nuovo Dirty Dancing, nessuno ha gli «hungry eyes». È un film sull’estate ma non sudano mai. Baby non sboccia, non sanno ballare. Le tensioni di classe sono minimizzate. Non avevamo bisogno di sapere se la storia con Johnny sarebbe durata. Invece, nel remake, c’è un tristissimo flash-forward copiato a La La Land. Ma ciò che rovina è il femminismo. Che nell’87 era illustrato, ma non discettato. La nuova Baby legge La mistica della femminilità e lo declama alla sorella. Che non è più la Lisa sciocchina, ma è progressista pure lei. C’è l’amicizia interrazziale, perfino Neil è femminista. È Dirty Dancing politically correct. Mentre la madre di Baby, ignorata sessualmente dal marito, contempla il divorzio. Nel 1987, un film e una colonna sonora rievocarono la nostalgia di un’epoca. Il remake e le sue cover provano invece a rievocare il film. Dimostrando che «the time of my life» non può tornare. Questa Baby mettetela in un angolo. o amato tanto Martino, il mio Gatto, e lo amo tanto ora che non c’è più. A dir la verità lui c’è sempre, anche se non si vede. Se ne è andato lo scorso 23 settembre, senza disturbare, con la dignità tipica degli animali, specialmente dei felini. Nel pomeriggio avrei dovuto portarlo dal veterinario per smettere — con una iniezione — di farlo soffrire; non tanto per i suoi 15 anni (sembrava ancora un ragazzino), ma per le patologie che lo avevano consumato nell’ultimo anno. Decise però di salutare me e Catia qui a casa, prima di quell’appuntamento, scendendo dal divano, sul quale avevamo cercato di accomodarlo, per mettersi a morire nel modo più naturale: disteso sul pavimento davanti alla finestra. Quella finestra da cui, per anni, era stato a guardare il mondo, a rincorrere con lo sguardo gli uccelli, ad ascoltare il vento. Si è lasciato andare lì, senza lamentarsi troppo; il mio bellissimo eroe era ormai stanco. Aveva combattuto molto negli ultimi tempi, sbeffeggiando la morte che avrebbe voluto portarselo via prima. Lui però era un ragazzo sorprendente, ma soprattutto buono. «Martino è saggio — diceva sempre Enrico il veterinario —, lui sa che quando viene qui a fare le cure, lo fa per il suo bene». Perché si ama un gatto? Quanta gente sostiene che i gatti siano animali opportunisti e insensibili, magari in confronto ai cani, spesso definiti intelligenti e fedeli. Condivido il pensiero sui cani, ma entrare in sintonia con un gatto è scoprire impensabili lati del proprio carattere e della propria sensibilità. Martino è stato capace di fare emergere non solo il mio istinto di protezione, ma anche quella sensazione di benessere che si creava quando entravo in sintonia con lui. Con Martino la vita era bellissima e la casa senza di lui è troppo perfetta, troppo in ordine. Io, che pensavo di proteggerlo, solo ora comprendo che ero io ad essere protetto, da lui e dai suoi sguardi. re anni fa. Mio fratello e un’amica stanno parlando fuori casa quando sentono qualcosa strofinarsi contro le gambe. È un gattino (anzi, avremmo appurato dopo, una gattina), giunto chissà da dove. Si fa coccolare, poi entra spedito nel portone. Lo seguono e lo trovano raggomitolato sulla sedia che era solito occupare nostro padre e che, dopo la sua morte, nessuno aveva voluto spostare. La mia storia con Jambi è cominciata così. Entrava e usciva di casa a suo piacimento, facendomi alzare in piena notte per accontentarla. La portai dal veterinario: confermò che non aveva neppure un anno e che stava benissimo. Decisi di farla sterilizzare, ma dopo l’intervento ebbe la febbre. Nonostante fossi stato scrupoloso nel seguire le istruzioni, la ferita si infettò. Per la prima volta ho avvertito una sensazione difficile da descrivere, un misto fra il timore di perderla e un profondo senso di colpa per averla costretta all’intervento. Jambi era arrivata da poco e cominciavo già a stare male per lei. Si riprese e feci una promessa a me stesso: fare tutto il possibile per permetterle di vivere nel modo migliore, tenendo a freno le mie ansie (soprattutto per le auto che sfrecciavano sotto casa) e lasciandole la libertà che voleva. Fece amicizia con il mio cagnolino, Argo, e quando lui si ammalò, gli restò sempre vicino, condivise con lui e con me la drammaticità di quei giorni. Poi arrivò quel maledetto 5 maggio. Stavo entrando in garage quando ho visto un’auto che correva un po’ troppo. A bordo c’erano tre ragazzi. Ho sentito un rumore secco: per terra, a un paio di metri da me, c’era Jambi. Non ci fu niente da fare, l’avevano uccisa. La portai per l’ultima volta in casa, in attesa di seppellirla accanto a Argo. È strano come la sua scomparsa abbia avuto il potere di svuotare di armonia la casa. Tutto è diventato di colpo più freddo. E ora che sembra già tornata l’estate, mi sorprendo a guardare le stelle, una in particolare.