Opzione maxi taglio dei costi per il via libera al salvataggio
Nella trattativa con Bruxelles coinvolto anche il premier Gentiloni
Il solo modo di evitare un traumatico fallimento di Popolare di Vicenza e Veneto Banca, in base alle trattative in corso, sembra ormai un taglio dei costi più profondo di quanto delineato fin qui. Le due banche, che lavorano alla fusione, nel complesso hanno 11.600 dipendenti e il piano attuale prevede che ne escano poco più del 20%. Ma il salvataggio con una ricapitalizzazione pubblica «precauzionale» sembra praticabile solo se la quota di lavoratori in esubero aumenterà, forse fino a raddoppiare, in modo da far salire - in teoria - la redditività dalla nuova azienda destinata a nascere dall’aggregazione.
Diverse persone a conoscenza delle discussioni concordano su un punto: solo se le due banche tagliassero i costi più a fondo, si ridurrebbero le perdite prevedibili nel futuro prossimo e diventerebbe dunque possibile una ricapitalizzazione pubblica. In base a un’interpretazione alla lettera della legge europea, l’intervento del governo è infatti possibile a scopo «precauzionale» – senza passare da un fallimento traumatico – solo per rafforzare una banca in caso di choc futuri. Non per ripianare perdite passate o già in arrivo.
Per la Popolare di Vicenza e Veneto Banca lo spazio di una forte riduzione dei costi sicuramente non manca. Entrambe hanno circa metà del personale concentrato in sedi centrali situate a poche decine di chilometri l’una dall’altra, e molti sportelli obsoleti e sovrapposti negli stessi territori. Se però si arrivasse a tagli più incisivi, discussi in queste ore fra Bruxelles e Roma con il coinvolgimento diretto del premier Paolo Gentiloni, è anche perché questa è la sola scelta in grado di conciliare le logiche di ciascuno dei protagonisti: il governo italiano, la Commissione Ue che controlla gli aiuti di Stato, la Banca centrale europea che vigila sulla stabilità degli istituti, e il Consiglio unico di risoluzione chiamato a decidere quando staccare la spina a una banca in dissesto, imponendo perdite su azionisti, creditori e depositanti.
Nella vicenda delle due banche venete, ciascuno di questi attori ha seguito fin qui una propria logica interna poco compatibile con quelle degli altri. La Bce, che dovrebbe rispondere dell’eventuale dissesto della banca nata dalla fusione di Vicenza e Veneto, mira solo alla stabilità finanziaria: per questo chiede la pulizia immediata dei bilanci con la cessione crediti in default per il valore teorico di circa 9 miliardi di euro, più un forte aumento di capitale per ripianare le perdite che ne derivano e per costituire un patrimonio ben al di sopra i requisiti minimi regolatori; ma proprio i tempi stretti imposti dalla Bce nella vendita dei prestiti di cattiva qualità ne deprimono i prezzi, fanno salire le perdite e dunque aumentano il fabbisogno di capitale.
La Commissione Ue segue una logica diversa, perché cerca di ridurre le dimensioni degli aiuti di Stato sui quali vigila. Dunque mentre la Bce chiede più capitale, la Commissione ne vuole meno se questo è pubblico. Per un mese e mezzo, sembrava soddisfatta da un’operazione di risanamento delle due banche venete da 6,4 miliardi dei quali circa 1,5 trovati tagliando il valore delle obbligazioni più a rischio; il resto sarebbe venuto dal governo. Poi ha cambiato rotta: ha chiesto che le perdite pregresse e prevedibili, quelle legate alla vendita dei crediti in default, siano coperte dagli azionisti privati. Prima che parta l’aiuto di Stato toccherebbe dunque al fondo Atlante, partecipato da tutte le banche italiane, le quali però rifiutano di perdere altri soldi in Veneto e Vicenza.
La svolta della Commissione Ue si spiegherebbe con la pressione di Elke König, la tedesca che guida il Consiglio di risoluzione di Bruxelles. Se infatti venissero aggirate le norme che limitano severamente gli aiuti di Stato alle banche e ne prevedono la liquidazione immediata («risoluzione»), la sua autorità non sarebbe più credibile. Il problema è poi esacerbato dal governo italiano, che continua a evitare misure che accelerino con efficacia il recupero delle garanzie dei casi di insolvenza. Quelle norme farebbero salire il valore dei crediti in default e ridurrebbe molto le perdite «prevedibili» di Vicenza e Veneto. Ma sarebbero impopolari fra imprese e famiglie indebitate, dunque non succede niente.
Così il compromesso può arrivare solo da un drammatico taglio dei costi, il dimezzamento di fatto della capacità delle due banche di operare. Esso in teoria permetterebbe a tutti di salvare la faccia sostenendo che così si riducono le perdite attese: quasi una foglia di fico in vista della scomparsa, nei prossimi anni, di due banche ormai senza mercato.