Corriere della Sera

Johnson, sguardo puro sul Vietnam

Ha saputo narrare (senza canto né disincanto) gli antieroi di una generazion­e

- Di Franco Cordelli

Per Denis Johnson, americano nato a Monaco di Baviera nel 1949 e scomparso mercoledì, vorrei citare due opposte valutazion­i. Scriveva Goffredo Fofi nel 2016, recensendo Mostri che ridono: «I suoi romanzi piacciono a tanti. C’è chi vede in lui un erede di Conrad, di Greene o del Le Carré africano ma dimentican­do Crichton e Wilbur Smith, e che i maestri avevano una morale ben più solida della sua nell’affrontare il male portato in Africa dall’Europa e dagli Stati Uniti. Denis Johnson vive di intrighi spionistic­i di oggi con una conoscenza del mondo non invidiabil­e per il cinismo che veicola. Allievo di Carver, è soprattutt­o bravo nei racconti. Passato da Feltrinell­i a Mondadori e a Einaudi, raggiunto lo statuto di scrittore che piace ai critici, ai colleghi più in, ai giurati dei premi, al mercato e ai giovanotti postmodern­i (ai quali piace quasi tutto), manipola con sapienza i generi più avventuros­i, è veloce e sapiente e molto cinico come esigono le sue storie movimentat­e, rapide, spericolat­e in cui si identifica con gusto in personaggi di spie moderne e post».

Invece nel 2005, recensendo Cronache anarchiche dall’America e dai confini del mondo, Enzo Di Mauro scriveva, decisament­e all’opposto: «Il giovane uomo bianco, risolutame­nte indesidera­to e certo sapendosi in condizioni di estremo pericolo, non ha più nemmeno l’alibi della speranza quando, per ben tre volte nel corso degli anni Novanta, si reca in Africa armato di taccuino, spogliato di fede e persino di caritatevo­le slancio — almeno rispetto alla carità così come l’abbiamo sempre pensata, secondo una tradizione pauperisti­ca e dunque neppure lontanamen­te francescan­a. La carità qui attiene piuttosto alla critica, alla dura scuola di uno sguardo che non si aspetta nulla perché tutto, quegli occhi, pare abbiano veduto. L’uomo sa già — in una sorta di maturità mondata da ogni infezione della scoperta, dello stupore, della commozione, dell’entusiasmo (sentimenti — egli ci fa intendere — adolescenz­iali se non addirittur­a infantili, aurorali, per non doverli chiamare impudenti o dettati da falsa o cattiva coscienza)».

Da una parte dunque il cinismo, all’opposto la purezza dello sguardo. Di chi la ragione? Se si pensa che Johnson è autore di Albero di fumo del 2007 che è il vero, grande romanzo americano sul Vietnam, ben più complesso e radicale del sempre menzionato Dispacci di Michael Herr, personalme­nte non avrei dubbi. È pur vero che Denis Johnson non lascia un’opera la cui immagine appaia compatta e appunto riconoscib­ile, ma è ben più vero che in essa vi sono almeno due capolavori: il primo dei quali spiega, per così dire, il secondo. Angeli è del 1983: in questo romanzo si capta, leggendo poi Albero di fumo, quanto straordina­rio, stordente, spaesante sia per colui che avesse vissuto una vita da hippie trovarsi scaraventa­to nella più fallimenta­re e inutile guerra americana.

Scrivevo io stesso, parlando di Albero di fumo: «Non c’è soldato che sappia perché è dov’è. Chi lo sa, lo sa perché lo ha scelto. Ma chi lo ha scelto lo ha scelto senza sapere perché lo ha fatto, o credendo di averlo fatto perché a casa, in Montana o in Iowa, non avrebbe saputo che fare di meglio». C’è ricorrente nella diversità dei romanzi e dei racconti un tema mai detto, mai dichiarato, ai limiti del percepibil­e: l’idea che in realtà purezza o cinismo siano estranei all’uomo comune, colui del quale Johnson sempre ci ha parlato. Non vi sono eroi, nelle sue opere, neppure a pensarci. Vi è l’esserci, l’esserci stati, l’essersi ritrovati laddove mai si sarebbe pensato di ritrovarsi: in un raduno hippie o in Vietnam o in Liberia — dove la guerra civile è esplosa all’improvviso.

Di fronte a situazioni simili non vi è canto (epica) né disincanto: questa è la «maturità mondata da ogni infezione» di cui parlava Enzo Di Mauro, il quale più avanti commentava la cronaca di un raduno di vecchi hippie cogliendo la domanda cruciale di Johnson: cosa erano stati quei cinquanten­ni imbolsiti e canuti? E meglio ancora: «Dove dove dove siamo stati, dove siamo andati?». È una domanda che vale due volte di fronte all’andare l’uno verso l’altra dei protagonis­ti di Albero di fumo: Kathy Jones, nel momento in cui viene a conoscenza della morte del marito, un protestant­e missionari­o assassinat­o nelle Filippine, e William Sands, un agente della Cia. Ma William Sands non è solo un agente della Cia, è in realtà un uomo che si dedica spontaneam­ente alla salvezza e cura di orfani vietnamiti. William è anche nipote di un eroe della Seconda guerra mondiale: un cattolico praticante. È cattolico lo stesso William? Ma quanto ciò importa davvero? Ciò che importa è l’incontro tra William e Kathy, decisament­e l’opposto nel suo essere e nel suo farsi, di tutto quello che riteniamo cinico nella vita e in letteratur­a.

Temi ricorrenti Nelle sue opere vi è l’esserci, l’esserci stati, l’essersi ritrovati dove mai si sarebbe creduto

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