Ma resta un’edizione dalle scelte deboli: produttori invadenti e ricerca ossessiva di volti da red carpet
La peggior selezione del nuovo millennio? La battuta che gira tra gli addetti ai lavori trova ogni giorno più conferme: l’edizione che doveva festeggiare i settant’anni del festival cinematografico più importante del mondo si è rivelata la più debole e controproducente. Nessun capolavoro, tanti «maestri» che hanno deluso (un nome su tutti: Haneke e il suo Happy End) ma soprattutto un diffuso senso di rassegnazione e sconforto. Non si vede l’ora di tornarsene a casa. Difficile che il direttore Thierry Frémaux faccia autocritica in tempi brevi. Alla cena in onore della stampa (250 giornalisti selezionati da tutti i Paesi) si aggirava tra i tavoli chiedendo se ci si sarebbe rivisti l’anno prossimo, ma più che una battuta sembrava il modo per esorcizzare le critiche. Qualche scusa «oggettiva» indubbiamente c’è: i film americani di maggior valore, pensati per concorrere all’Oscar, usciranno alla fine dell’anno e maggio è troppo lontano per investire soldi ed energie in un lancio a Cannes. Ma basta a giustificare tutte le delusioni di questi giorni? Viene il dubbio, molto concreto, che Frémaux abbia ceduto a due pressioni che hanno finito per spingere il festival verso il basso. Da una parte quella dei produttori francesi (Wild Bunch e Le Pacte su tutti) che hanno «imposto» i loro film e le loro numerose coproduzioni. Tutti le pellicole o quasi in concorso avevano potuto contare su soldi francesi e questo può spiegare l’assenza di intere cinematografie attualmente poco frequentate dagli investitori transalpini (Cina, India, America Latina). Dall’altra c’è la Montées des Marches, il tappeto rosso steso sui gradini che portano alla Grande Sale Lumière sul cui affollamento televisioni e giornali misurano