Giro, all’ultimo secondo
Venti tappe in tre settimane, 3579,8 km pedalati attraverso 15 regioni. Capelli cresciuti sotto i caschetti, barbe ormai lunghe, corridori diventati papà in corsa (Franco Pellizotti di Mia). E a 29.300 metri dal traguardo di Piazza del Duomo, oggi, quattro uomini sono ancora prigionieri di 53 secondi.
Il Giro è viaggio. Racconto. Vita. È record quando si decide per un battito di ciglia: Fiorenzo Magni su Ezio Cecchi per 11’’, edizione 1948. Tra Nairo Quintana in maglia rosa e Vincenzo Nibali che ha ancora la voglia di inseguire ce ne sono 39’’. Thibaut Pinot è l’ombra dello Squalo (+4’’). E poi c’è Tom Dumoulin, ieri meno bello e pettinato del solito, chiamato a recuperare 53’’ nell’esercizio di stile che gli riesce meglio: quell’apnea infinita vestiti da marziani che chiamano crono.
Comunque vada a finire, il Giro cento è stato un Giro super. Nel 2012 il canadese Hesjedal soffiò allo spagnolo Rodriguez la corsa rosa proprio all’ultima tappa, una crono, per uno sternuto e un colpo d’ala (16’’). Saranno pochi di più quelli che a Milano dirimeranno una questione lunga come tutta l’Italia tra un colombiano cresciuto sulle Ande, un siculo orgoglioso, un francese che porta la voglia di grandeur tatuata addosso («Solo la vittoria è bella») e un olandese mutante che tra Blockhaus e Alpi ha saputo cambiare pelle, da cronoman a passista-scalatore, con una trasformazione alla Fregoli che, spesso, ha lasciato sul posto i rivali. «Il mio favorito resta Tom» dice Pinot dopo aver vinto una tappa in cui è cambiato tutto per non cambiare niente. Scalato il Monte Grappa, nei tascapane una classifica
già cortissima, sulla salita di Foza, ultimo gran premio della montagna (11 km, pendenza massima 11%), cominciano i dispettucci tra compagni d’avventura. Nibali punge, Dumoulin soffre; Quintana, Pinot, Zakarin e Pozzovivo, l’eroico Pozzo, rispondono. Le gambe sono frolle, le menti stanche. Per staccare sul serio l’orange bisognerebbe avere il coraggio di affondare il coltello fino all’elsa ma nessuno ha la forza di osare e dietro, con distacchi variabili e sempre fluidi (fino a +22’’), Dumoulin trova alleati per strada — Yates, Jungels, Mollema («Mi sono ucciso a inseguire: non li ringrazierò mai abbastanza» dirà Tom, grato) — con cui stringere un patto di non belligeranza. Collaborano d’amore e d’accordo, i suiveurs, mentre davanti lo Squalo e il Condor bisticciano, chiedono di tirare l’uno all’altro, Zakarin non collabora, Pozzo è già contento di essere stato invitato al party del tatticismo, che purtroppo non vale abbuoni. Giù in discesa, verso Asiago, e poi nel toboga delle transenne, non ci sono più energie né margine per un allungo fatale all’olandese, che piomba a valle in posizione da crono (appena +15’’), vede i nemici all’orizzonte, sospira di sollievo: «Non è finita finché è finita, ma sono ancora in gioco».
Ogni centimetro d’asfalto, da Monza a Milano, può valere il Giro 2017. Nibalino s’aggrappa all’ispirazione («Sarà durissima però Dumoulin ha lavorato molto ieri, sarà stanco come noi, che abbiamo le forze al limite») e alle congiunture astrali. Quintana, faccia di pietra, ha un barlume d’umanità: «Devo fare la crono della vita. Non siamo macchine, non cambiamo marcia e via». Contro il cronometro, senza imprevisti, è pura matematica. La crono del Sagrantino ha orientato la corsa e quella del Duomo la sigillerà. Ma anche l’anno scorso sembrava perduta e più di una volta, nel passato, tra Vuelta, Tour e Giro gli dei del ciclismo hanno deciso che due più due fa Nibali.