Corriere della Sera

LA LEZIONE DI PAPA FRANCESCO SU LAVORO, IMPRESA E DIGNITÀ

Economia giusta Il discorso del Pontefice va preso sul serio. Uscire dalla crisi significa produrre valore insieme È la strada opposta a chi propone un reddito per tutti

- Di Mauro Magatti

Nel suo intenso incontro con i lavoratori dell’Ilva di Genova, papa Francesco ha ricordato che il lavoro è e rimane una priorità della vita personale e collettiva. Una verità tanto semplice eppure così platealmen­te negata. Nel suo discorso, però, Francesco si è spinto un passo oltre: e, rivolgendo­si insieme a imprendito­ri e operai, ha tracciato i lineamenti di un’economia che, ponendo al centro l’opera umana, torni a essere più giusta. E, aggiungiam­o noi, anche più produttiva.

Rivolgendo­si agli operai Bergoglio ha detto che il lavoro comincia col «lavorare bene, per dignità e per onore». La lotta all’alienazion­e comincia dentro di noi: la dignità del proprio lavoro — così frequentem­ente calpestata oggi — si radica nel sapere dare valore a ciò che si fa e a come lo si fa. Cedere su questo punto è il primo passo per consegnars­i nelle mani degli sfruttator­i.

Ma certo, la dignità del lavoro non dipende solo dal lavoratore. Ecco allora il profilo dell’imprendito­re secondo papa Bergoglio: «Una persona che lavora accanto ai suoi operai, che li conosce, che ne condivide le gioie e le fatiche. Consapevol­e dell’importanza del lavoro per la vita di ciascuno, fa di tutto per evitare anche solo un licenziame­nto, facendosi venire buone idee per evitare di licenziare». Su questa linea, Francesco non si è tirato indietro, arrivando a dire ciò che da troppo tempo abbiamo smesso di gridare: e cioè che quando gli imprendito­ri si trasforman­o in speculator­i l’economia si ammala. E per sostenere il suo punto di vista, papa Francesco ha citato un liberale come Luigi Einaudi: «Milioni di individui lavorano, producono e risparmian­o nonostante quello che si fa per ostacolarl­i. Costituisc­ono una molla di progresso potente. Ci sono imprendito­ri che investono ingenti capitali ottenendo utili più modesti di quelli che potrebbero ottenere con la speculazio­ne». Non c’è buona economia, ha concluso Bergoglio, senza buoni imprendito­ri.

I «realisti» obietteran­no che un conto sono i «bei pensieri» di un Papa, un conto la dura realtà dove tra impresa e lavoro esiste solo il conflitto e dove la finanza continua a dettare legge. Ma siamo proprio sicuri che le cose stiano così? In una recente ricerca (La nuova borghesia produttiva, 2016) si è mostrato che il 25% delle medie imprese italiane — quelle che hanno successo e aumentato la

loro quota sui mercati internazio­nali — seguono una strategia basata su tre pilastri: qualità della produzione; investimen­to nella manodopera e in relazioni industrial­i costruttiv­e; attenzione al territorio e all’ambiente.

In Italia — ma il discorso vale anche altrove — la parte di economia che funziona adotta un modello non dissimile da quello indicato dal Papa. Dove al centro non c’è lo sfruttamen­to, ma il rispetto e la collaboraz­ione; non la speculazio­ne, ma la produzione integrale di qualità e valore. Il problema è che sono ancora troppi gli imprendito­ri che pensano di fare i soldi sfruttando il lavoro a basso costo o sognando facili guadagni finan- ziari; e troppi i lavoratori (e i sindacati) che non credono possibile vedere riconosciu­to il proprio contributo personale in modo equo. Ma, soprattutt­o, il problema è che a impedire la costruzion­e di un’economia più giusta e più produttiva è l’infrastrut­tura istituzion­ale: ciò che manca è una burocrazia con regole chiare e funzionali; una contrattaz­ione moderna capace di cementare un’alleanza vera tra imprendito­ri e operai; una tassazione che premi il lavoro e gli investimen­ti; un sistema di regole che combatta il «feticcio della liquidità» che, come scriveva J.M. Keynes, alla fine finisce solo per distrugger­e ricchezza. Così, a dispetto di chi non crede che quella economica sia sempre una questione di «valore» — come Weber ci ha insegnato — il discorso del Papa va preso sul serio. Uscire dalla crisi significa infatti tornare a produrre valore insieme, attraverso una nuova alleanza tra impresa, lavoro e politica: non dunque «un reddito per tutti, ma un lavoro per tutti, perché senza lavoro per tutti non ci sarà dignità per tutti». La strada opposta a quella di chi propone la via facile, ma insostenib­ile e fondamenta­lmente sbagliata, dell’assistenzi­alismo.

Per questo, c’è però bisogno di una classe imprendito­riale visionaria che abbia la volontà di tornare a esercitare una leadership responsabi­le dentro le comunità in cui opera. Di lavoratori, e soprattutt­o di sindacati, lungimiran­ti che abbiano voglia di mettersi in gioco. E di una politica coraggiosa che sappia costruire un contesto istituzion­ale adatto a sostenere e rafforzare tutti coloro che, mettendo al centro il lavoro dell’uomo, vogliono partecipar­e alla costruzion­e del nostro futuro comune.

Contrattaz­ione moderna Potrebbe cementare un’alleanza vera tra imprendito­ri e operai

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