Il Sessantotto, poi l’America Storia di una generazione
Ne «La lunga notte di Adele in cucina» (Giunti) di Livia Aymonino le esperienze dei nati negli anni Cinquanta
La lunga notte di Adele in cucina (Giunti) è una notte in cui Livia Aymonino si imbarca in un match violento e appassionato con se stessa, litiga con quella che era e con quella che è diventata. Fa a pugni, si commuove, rimpiange, rivendica, ricorda con rabbia, con tenerezza, con nostalgia i momenti della sua vita che è anche la vita nostra, di chi è nato nel cuore degli anni Cinquanta e si è speso, ha goduto, ha pianto, si è sprecato correndo all’impazzata, come ha fatto Livia Aymonino, tra Roma e la Giamaica e Milano e New York, non sempre lucida, sempre appassionata, talvolta eccessiva, sempre genuina.
Che poi è una notte interminabile e sudata ma vi concederà delle soste, le ricette che
l’autrice, Adele, ci regala con generosità e che il lettore potrà consultare e anche copiare quando arriveranno le sue, di notti bianche e incandescenti.
Lei è la figlia di una borghesia colta, di una nomenclatura illustre e illuminata dall’esercizio familiare del potere culturale, rigorosamente di sinistra eppure confortata da un’antica ricchezza non ostentata ma délabrée, eleganza e trasandatezza, disordine e libri buoni, mai niente fuori posto, niente volgarità, niente che smentisca il codice dell’understatement, niente che conceda alle brutture grossolane dei nuovi ricchi.
Una grande famiglia incasinata. Quando deve dire al figlio, «l’unico garante della sola famiglia che ancora stava in piedi», come sia tutto un pasticcio perfino da descrivere, lei, Adele, rinsavita ma non domata, sfodera tutta l’ironia necessaria per comunicargli che la nonna «era sposata con un altro marito, mia mamma ha tre fratelli ma sono figli di tre mamme diverse, che sono tutte mie nonne, mentre l’altra nonna ha avuto molti mariti, poi anche zia ha due figli da due mariti diversi, proprio come la mamma» e così via.
Adele si è ribellata sin da ragazza a questo miscuglio sorprendente di perbenismo e di trasgressione, di correttezza ideologica e di comportamenti slabbrati. Nell’Italia dove la promessa radiosa di un nuovo avvenire consacrato dagli inni e dalle liturgie del Sessantotto si è poi deturpata negli orrori della violenza politica e nella nube tossica delle droghe pesanti, Livia, cioè Adele, a un certo punto taglia i ponti, attraversa l’oceano, raggiunge la chimera di New York.
Alle spalle, poco più che ventenne, lascia amori consumati in fretta e spezzati cuori infranti, la lacerazione degli aborti ancora illegali e praticati nei viaggi collettivi a Londra («viaggi della speranza»? Non proprio). E anche lì, l’eterna adolescenza protratta oltre i limiti consentiti, l’edonismo, la fuga, le amicizie, gli amori, la libertà sessuale come fame insaziabile di vita.
Va a New York, squattrinata come si deve nella nuova religione on the road (anche se dall’Italia sopraggiungono insperati aiuti di tanto in tanto), nella terra del grande sogno, dove tutto è più possibile e tutto è più largo con la sua amica Francesca (Marciano) al fianco, che poi la trascina in Giamaica, che è la Giamaica esattamente tale e quale a quella che viene raccontata dal suo stereotipo, fumo e liberazione, mare e amori, giorni e soprattutto notti.
Poi Adele torna in Italia, non a Roma ma a Milano e incrocia la Milano da bere, edonista, eccessiva, senza vincoli e remore, piena di opportunità e di modernità. Va a lavorare nella casa discografica di Caterina Caselli (che capisce prima degli altri il fenomeno Eros Ramazzotti), si tuffa nel mondo della musica e delle canzoni, naviga Sanremo, festival, manifestazioni, dischi.
E il lettore non potrà perdersi la descrizione esilarante di una Pasquetta bizzarra e indimenticabile che Livia, insomma Adele, trascorre ad Arcore, nella villa gigantesca di Silvio Berlusconi, dove tutto è enorme, smisurato, sproporzionato, persino il caviale delle tartine è tanto, persino il numero degli schermi tv è senza misura, e lei, portata lì da Caterina Caselli in compagnia di Bettino Craxi e signora e di Fedele Confalonieri con cui il padrone di casa improvvisa un duo al pianoforte, assiste come a uno spettacolo inatteso, simbolo di una stagione milanese irripetibile, quando Berlusconi era un magnate della tv che aveva sbaragliato la concorrenza e la politica era ancora lontana.
Poi storie allegre e storie tristi. Allegre, ma anche con le cupezze del dolore, nella sua nuova alleanza matrimoniale con Silvio Sircana. Tristi, perché è descritta la fine del padre Carlo Aymonino, l’Architetto bello, impossibile, geniale, che quando gli scoprono un tumore al fegato chiede se può bere ancora vodka, e che la figlia accompagna fino all’ultimo. E Livia, Adele, ricorda anche che il padre architetto, ateo come più non è possibile, le faceva vedere le magnificenze delle chiese, le colonne, le pale, gli altari, i mosaici, le tombe, i marmi di quei luoghi di fede, di preghiera e di potere, ma lei era rimasta una laica impenitente e quando quello che diventerà il suo primo marito le chiederà di sposarsi secondo il rito cattolico lei sentirà solo un grande disagio con tutto quel bianco e allora imporrà lo scuro della cioccolata nella torta, inammissibile secondo i canoni tradizionali.
Dimostrazione che le ricette che Adele colleziona e regala ai lettori non sono un di più, un’appendice bibliografica sia pur strana e singolare, ma sono pezzi di vita, di significati, di modi di stare al mondo. E il modo di stare al mondo di Livia Aymonino, alias Adele, è stato disordinato ma vitale, casinista, a volte persino sgangherato, pieno di traslochi, di cose perdute, di oggetti che si accumulano e oggetti che si dimenticano, di un corpo che invecchia e che l’autrice descrive in forme struggenti. Disordinatissimo anzi, come la storia e il ricettario raccontati in questo libro. Ma vitale, come lo sono solo le belle storie.
Orizzonti New York, la Giamaica, Roma e Milano sono le tappe di un racconto di vita (e di ricette)