Ma «120 battiti...» meritava il trionfo
Un applauso interminabile e una standing ovation hanno ribadito che il vero vincitore di questo festival è Robin Campillo e il suo 120 battiti al minuto, cui è andato il Grand Prix du Jury, di fatto il secondo premio. La Palma d’oro della settantesima edizione, quella che Chopard ha arricchito con diamanti estratti rispettando il lavoro dei minatori (dove arriva il politicamente corretto!), ha premiato invece lo svedese The Square e il regista Robert Östlund, che non ha portato sul palco nemmeno il suo protagonista Claes Bang, vera forza motrice del film, e ha dovuto fare un po’ il pagliaccio per scaldare davvero la platea. In tanti avevamo detto che lo spirito scombiccherato e simil-surrealista poteva convincere Pedro Almodóvar, ma arrivare alla Palma d’oro mi sembra al di là dei suoi meriti, visto che nella seconda parte (probabilmente ancora da limare: l’ha fatto capire anche nel suo discorso di ringraziamento) i fatti si accumulano più che incatenarsi davvero. In generale però bisogna dire che la giuria ha saputo evitare molte delle trappole che questa deludente edizione poteva piazzare sul suo cammino. «Liquidate» con un premio alla sceneggiatura due opere più ambiziose che riuscite — The Killing of a Sacred Deer del fumoso Lanthimos e You Were Never Really Here della Ramsay — gli altri premi sono andati ai pochi film che si sono elevati sopra la media. Personalmente avrei alzato il riconoscimento al russo Nelyubov (Loveless) di Andrej Zvjagincev, emozionante squarcio sull’egoismo che si è impadronito della Russia di oggi e premiato con il Prix du Jury (lo stesso che ebbe Sorrentino per Il divo), ma si sa che all’interno delle giurie gli equilibri «geopolitici» finiscono sempre per far sentire le loro ragioni. Poco da dire sui premi agli attori: più convincente quello femminile (a Diane Kruger) che quello maschile (a Joaquin Phoenix), e un po’ sopravvalutati i meriti della Coppola, da dividere equamente per lo meno con il direttore della fotografia Philippe Le Sourd, ma resta il fatto che certi film fintamente ambiziosi e sostanzialmente furbeschi sono stati sonoramente dimenticati. Lo «sgarbo» della Kidman, che non è venuta a ritirare un premio fatto apposta per lei, potrebbe spingere il festival e il suo direttore a fare autocritica sull’eccessivo peso attribuito alle star (che usano Cannes soprattutto come passerella per le proprie ambizioni: era così complicato noleggiare un aereo privato per tornare sulla Croisette in tempo?). Ma ho paura che certe «lezioni» nessuno le voglia davvero ascoltare. E invece questo è uno dei principali messaggi che ci ha lanciato questa settantesima edizione, insieme alla conferma che i film che non cercano davvero strade nuove e imprevedibili finiscono per non convincere. Né il pubblico né le giurie.