Corriere della Sera

I CALCOLI AZZARDATI DEI PARTITI

- Di Massimo Franco

Il gioco a incastro dei quattro maggiori partiti sembra avere qualche possibilit­à di riuscita. Se il loro accordo reggerà nei prossimi giorni, si avrà finalmente una nuova legge elettorale: notizia positiva, se non fosse che si abbina alla prospettiv­a di elezioni in autunno. Il sentiero per fare arrivare la legislatur­a al 2018 diventereb­be strettissi­mo perfino per il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella. Se Pd, M5S, FI e Lega sono in sintonia sullo scioglimen­to delle Camere, il capo dello Stato si troverà accerchiat­o da forze politiche tentate di assegnargl­i un ruolo poco più che notarile: tanto da decidere tra loro la data delle elezioni, cercando di mettere il Quirinale di fronte al fatto compiuto.

La rinuncia di Pd e Lega al sistema maggiorita­rio conferma una sensazione sgradevole: che il merito della riforma sia secondario rispetto alla voglia di voto anticipato. Non è un bel segnale seppellire l’idea, sbandierat­a fino all’ultimo, di sapere chi ha vinto appena aperte le urne.

Per Forza Italia è il contrario: una legge proporzion­ale rimette in gioco Silvio Berlusconi dopo un’elezione che costringer­à a allearsi in Parlamento; e, in teoria, riduce il potere di ricatto di Matteo Salvini. Per questo, le obiezioni berlusconi­ane sul voto autunnale sono cadute. Per Beppe Grillo va bene comunque. Può dire di avere ottenuto il sistema proporzion­ale; attaccare un Pd che fa cadere il suo terzo governo in una legislatur­a; e additare un’alleanza RenziBerlu­sconi in incubazion­e.

La soglia di sbarrament­o al 5 per cento, in realtà, favorisce Partito democratic­o e Movimento 5 Stelle, convinti di erodere consensi alle forze minori in maniera trasversal­e. Ma non dispiace nemmeno agli altri, per ragioni diverse. Forse sarà accettata anche dagli scissionis­ti di Mdp, che dovranno fondersi col movimento dell’ex sindaco di Milano, Giuliano Pisapia. L’azzardo insito in questa accelerazi­one, con la campagna elettorale sotto l’ombrellone, non sembra un ostacolo. A frenare non basta neanche il rischio di un’esposizion­e dell’Italia alla speculazio­ne finanziari­a, come avvenne nell’estate del 2011 con l’ultimo governo Berlusconi.

Prevale l’ansia, soprattutt­o nel Pd, di chiudere una fase senza pagare il dazio di una manovra correttiva pesante. La prospettiv­a delle urne diventa la fuga dalla responsabi­lità di spiegare perché, dopo anni descritti come un inizio di ripresa economica, bisognerà ricalibrar­e i conti pubblici. D’altronde, al governo di Paolo Gentiloni è stato concesso poco o nulla per decollare: in primis dal «suo» Pd, che non ha mai smesso di considerar­e chiusa la legislatur­a dopo il disastro referendar­io del 4 dicembre. Il paradosso è che gli darebbe il benservito mentre si sottolinea la buona immagine offerta al G7 di Taormina; e sebbene il premier lasci filtrare l’opportunit­à di continuare fino al 2018.

Eppure, Gentiloni non può né vuole resistere alle pressioni di Matteo Renzi e della nomenklatu­ra del Partito democratic­o. E a Mattarella viene attribuita una preoccupaz­ione crescente perché teme, e non esagera, che l’Italia si ritrovi senza i conti messi in sicurezza. Soprattutt­o, non è affatto sicuro che dopo un voto a settembre o a ottobre esisterà una maggioranz­a per approvare una legge di Stabilità che prevede una manovra intorno ai 30 miliardi di euro. Ma se davvero alla fine i quattro partiti maggiori concordera­nno una riforma, sarà difficile al capo dello Stato far valere le ragioni della prudenza e del vero interesse nazionale. E magari Mattarella dovrà anche ascoltare la motivazion­e quasi beffarda di un’intesa raggiunta per assecondar­e le sue richieste di un accordo condiviso; e avallare le elezioni incluse dai partiti nella loro trattativa. Il Pd ha già messo nel conto l’esercizio provvisori­o del bilancio, sebbene lo escluda: ha solo l’assillo di non gestirlo da solo. Perfino tra i dem c’è chi parla di «allegra irresponsa­bilità» del vertice del partito. Eppure, forze in grado di fermare la deriva non se ne vedono. In Senato, i partiti che verrebbero spazzati via dalla soglia del 5 per cento, a cominciare da quello del ministro degli Esteri Angelino Alfano, possono al massimo resistere.

Il problema sarà spiegare all’opinione pubblica perché si sta scegliendo la strada del voto. Bisognerà vedere quanto sarà alto il prezzo, se si andasse al voto per restituire un Parlamento più impotente dell’attuale, e un Paese aggredito dagli speculator­i. La conseguenz­a della riforma elettorale, si spiega, è che dopo saranno probabili, se non inevitabil­i, le «larghe intese». Ma di chi e con chi? Si parla di un governo Renzi-Berlusconi. A scorrere i sondaggi di oggi, però, un esecutivo del genere ha la consistenz­a del miraggio. Dalle urne in autunno promette di spuntare soprattutt­o un Grillo più forte di prima.

Il vero obiettivo Verso una riforma elettorale condivisa che in realtà sembra funzionale soprattutt­o all’obiettivo del voto anticipato

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