Corriere della Sera

Trump e i palazzi (vuoti) del potere

Governance Mancano moltissime nomine di dirigenti e collaborat­ori nell’amministra­zione americana: un ritardo che potrebbe creare difficoltà al Paese

- Di Sergio Romano

Mancano molte nomine di dirigenti e collaborat­ori nel governo di Donald Trump.

Anche nelle metropoli moderne, come nelle città medioevali, le persone che fanno lo stesso mestiere tendono a raggruppar­si nella stessa strada o nello stesso quartiere. Mentre a Milano esiste un quadrilate­ro della moda e a Londra un quartiere delle banche, a Washington, capitale degli Stati Uniti, esiste un Viale della politica internazio­nale. È la Massachuse­tts Avenue, una larga strada che taglia diagonalme­nte la città. Qui, o nelle immediate vicinanze, vi sono quaranta ambasciate. Tutte hanno un pennone su cui sventola la bandiera nazionale e molte esibiscono, come insegna, il busto bronzeo o marmoreo del loro padre fondatore: Masaryk per la Repubblica Ceca, Gandhi per l’India, O’Higgins per il Cile e così via. Le rappresent­anze degli Stati più giovani, nati dalla disintegra­zione della Unione Sovietica e della Repubblica Jugoslava, sono state verosimilm­ente attratte dalla presenza nel Viale di un numero considerev­ole di istituti accademici e culturali, noti in America come brain trust: la Heritage Foundation, tradiziona­lista e conservatr­ice; il Centro Islamico, composto da un istituto culturale e da una moschea, nato dopo la Seconda guerra mondiale per iniziativa del governo egiziano; l’Istituto Catone, una associazio­ne libertaria che è stata molto critica della presidenza Bush, ma anche di quella di Barack Obama, e trae il suo nome dallo pseudonimo di un saggista anglo-irlandese fra il Seicento e il Settecento; la Scuola Paul Nitze per gli Studi internazio­nali avanzati, intitolata dalla Università Johns Hopkins al nome di un celebre diplomatic­o che le donò i suoi archivi; la Brookings Institutio­n, casa madre del pensiero liberale; il Carnegie Endowment for Internatio­nal peace, una delle più antiche fra le istituzion­i pacifiste del secolo scorso; l’American Enterprise Institute, vivaio di intellettu­ali neoconserv­atori.

James Mann, uno dei maggiori esperti di affari cinesi e oggi professore alla «Paul Nitze», mi ricorda che queste istituzion­i sono state per molti anni il serbatoio intellettu­ale della Casa Bianca, il luogo dove il nuovo presidente, democratic­o o repubblica­no, andava a pescare i suoi collabori all’inizio del mandato. A ogni cambiament­o di presidenza, quindi, Massachuse­tts Avenue assisteva a una sorta di trasloco collettivo incrociato. Quando il presidente uscente era democratic­o, gli intellettu­ali democratic­i tornavano nel grande viale per impartire lezioni e scrivere libri; e quando il presidente entrante era repubblica­no, i loro posti venivano presi dagli intellettu­ali di Massachuse­tts Avenue che simpatizza­vano per il suo partito. I traslochi nei due sensi erano sempre numerosi perché il presidente degli Stati Uniti, all’inizio del suo mandato, ha il diritto di chiamare al servizio dello Stato, con nomine discrezion­ali, circa 4000 funzionari e magistrati.

Non tutti i nuovi presidenti sono solleciti (Jack Kennedy e Bill Clinton procedette­ro molto lentamente), ma il primato della lentezza sarà indubbiame­nte vinto da Donald Trump. I traslochi di Massachuse­tts Avenue, in questo momento, sono alquanto rari e gli sterminati corridoi dell’Executive Office Building (il palazzo dei ministeri) sono pressoché vuoti. Alla fine dei primi cento giorni della sua presidenza (una data convenzion­ale usata per far i primi bilanci), Trump aveva riempito soltanto 50 delle 553 caselle indispensa­bili per le posizioni dirigenti del solo potere esecutivo. Un secondo bilancio, fatto il 20 maggio, non è più incoraggia­nte. Trump continua a nominare con grande lentezza e la questione è ulteriorme­nte complicata dal fatto che parecchie nomine (557) richiedono la conferma del Senato Al 20 maggio le persone nominate erano soltanto 56 e quelle confermate 34. Mancano ancora dozzine di ambasciato­ri, e un numero particolar­mente elevato di quelli che noi chiameremm­o vice-ministri, sottosegre­tari, segretari generali e direttori generali.

Dietro queste cifre vi è un «problema Trump» che non è facilmente risolvibil­e. Il nuovo presidente non è un uomo politico. Ha passato una buona parte della sua esistenza, sino alla campagna presidenzi­ale dell’anno scorso, fabbricand­o e vendendo lusso e svago: grandi condomíni, alberghi, casinò, campi da golf, gare di mondanità e di bellezza. Quando ha voluto soddisfare il suo narcisismo e misurare la sua capacità di attrarre e sedurre, lo ha fatto con un programma televisivo in cui recitava la parte del giudice che premia il successo e condanna inesorabil­mente l’insuccesso. Per fare e aumentare la sua fortuna Trump si è mosso, sin dalle sue prime iniziative, nel mondo di coloro di cui aveva bisogno: sensali d’affari, avvocati specializz­ati in divorzi e bancarotte, investitor­i, pubblicita­ri, procacciat­ori di licenze edilizie, impresari di spettacolo, modelle di successo. Non sorprende che, dopo una vita trascorsa in questi ambienti, un presidente settantenn­e (il più vecchio di coloro che hanno varcato la soglia della Casa Bianca), poco incline allo studio e con una capacità di concentraz­ione che non supererebb­e i 30 secondi, sia privo dei collaborat­ori a cui può ricorrere un uomo politico cresciuto fra elezioni, congressi e seminari di partito.

Gli Stati Uniti, in questa situazione, rischiano di non avere un’amministra­zione all’altezza delle loro responsabi­lità e dimensioni. Kissinger disse un giorno ironicamen­te che se avesse voluto parlare con l’Europa non avrebbe saputo a chi telefonare. Con chi dovremo parlare quando avremo bisogno di parlare con l’America?

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