Corriere della Sera

Europa, il nodo islamico

Una distanza difficile da colmare tra la visione laica dello Stato e i dettami della legge coranica

- Di Roberto Esposito ed Ernesto Galli della Loggia

Le questioni sollevate da Caterina Resta rappresent­ano in maniera esemplare una posizione assai diffusa nella cultura come nel senso comune italiani (e non solo). Che si segnala innanzi tutto per un fatto curioso. E cioè che spesso proprio coloro che teorizzano una cultura della differenza o dell’alterità non tengono conto del principio logico ineludibil­e secondo il quale non può esistere alcuna nozione di differenza, o di alterità, senza una corrispett­iva nozione di identità. Solo se sono qualcosa posso rapportarm­i all’altro distinguen­domi da esso. Per pensare il Due o i Molti, non è forse necessario che essi siano intesi in quanto tali? E dunque definiti in base alla differenza di che cosa, se non delle loro rispettive identità?

Ciò vale soprattutt­o per l’Europa, perché da sempre — da quando ha senso parlarne come un insieme unitario — essa si costituisc­e intorno al principio di distinzion­e rispetto alla sua originaria unità con l’Asia: il «nodo di Gordio», come lo ha definito Ernst Jünger, che dalla Ionia ha continuato per secoli a legare Oriente e Occidente. Certo, chi potrebbe mai sottovalut­are gli apporti della tradizione araba nella matematica, nell’arte, nella scienza, nella filosofia occidental­e? Platonismo e aristoteli­smo sono letteralme­nte inconcepib­ili fuori dagli apporti, dagli innesti, dalle contaminaz­ioni con la filosofia araba. La nostra conoscenza di Platone e Aristotele viene anche da lì, così come l’opera, e la vita stessa di Averroè costituisc­ono il primo annuncio di quella che sarà cinque secoli dopo la battaglia dell’Illuminism­o.

Ma la storiograf­ia ha il dovere di non perdere la misura: nella quantità e nella qualità. E allora dobbiamo pur ricordare, per esempio, che la nostra conoscenza dell’umano, della sua irriducibi­le ambiguità, dei misteriosi labirinti di ogni sentimento e di ogni coscienza, cioè una parte essenziale dell’identità europea, ha un debito essenziale con un versante della cultura greca — la tragedia e la poesia — di cui neppure una riga, però, la cultura islamica si degnò mai di trasmetter­e o di elaborare, giudicando­le evidenteme­nte alla stregua di insignific­anti bellurie. E ancora: si può davvero dire che l’apporto

arabo sia il cuore dell’Occidente quanto, mettiamo, il logos greco e il diritto romano? O che la teologia islamica abbia pesato in Europa quanto quella ebraica e cristiana? Certo, in Dante c’è un potente elemento averroisti­co. Ma è forse la nota dominante della Commedia? Ci permettiam­o di dubitarne. Come si fa dunque a mettere sullo stesso piano misure e intensità così diverse?

Il principio della coesistenz­a dei distinti è il significat­o stesso della Trinità cristiana, di cui nel pensiero coranico non è traccia. E non a caso l’intera cultura occidental­e — da Hölderlin a Nietzsche — lavora sulla compresenz­a degli opposti. Del cosmo e del caos, della forma e dell’informe, del limite e dell’illimite.

La storia, la filosofia, la politica dell’Europa nascono per l’appunto dal senso del limite, dal distacco dall’illimite, dalla consapevol­ezza che solo dalla determinaz­ione nasce il senso. E anche la possibilit­à della vita civile: il limite è soprattutt­o il principio del politico. Non necessaria­mente nel senso del conflitto — tantomeno dello «scontro di civiltà». Ma in quello della distinzion­e. Da Machiavell­i a Montesquie­u la grande cultura politica europea ha riconosciu­to la necessità della distinzion­e tra potere, sapere e legge, tra teologia, morale e politica. Questo — che poi altro non è che la creazione dello Stato laico e l’idea di democrazia politica — è quanto continua a separarci dalla teocrazia islamica. E non solo da quella, come si dice, «radicale», ma anche da quella «moderata».

Nella tesi che per l’identità dell’Europa sarebbe stata «fondamenta­le» la radice islamica, come scrive la nostra interlocut­rice, c’è una forzatura ideologica estrema che non giova né alla storia né alla filosofia. Una forzatura, ciò che non è meno importante, la quale allontana dalla realtà vera delle cose, dal momento che si fonda su un’esagerata — e per certi versi ci permettiam­o di dire ingenua — sopravvalu­tazione dell’incidenza dei materiali «nobili», intellettu­almente «alti», nella formazione di quella cosa assai complessa che è l’identità storico-culturale. Che invece si costruisce per mille tramiti, e dunque utilizzand­o anche materiali «bassi»: primo fra tutti la memoria. Cioè appunto la storia.

Che quasi sempre sfugge a rassicuran­ti visioni di idilliaca convivenza. L’occupazion­e araba per mezzo millennio di buona parte della penisola iberica; il lungo e sanguinoso scontro di Venezia con il Turco nel Levante mediterran­eo; le scorrerie saracene e barbaresch­e durate fino all’inizio dell’Ottocento sulle coste italiane a caccia di donne, uomini e bottino; l’occupazion­e ottomana, anche questa semimillen­aria, di tanta parte dei Balcani, con la dura oppression­e delle popolazion­i cristiane costrette ogni anno a vedersi portare via una parte dei propri figli destinati ad essere convertiti all’Islam ed educati a Istanbul come guardie del sultano: siamo tentati di credere che forse tutto questo ha contato qualcosa. E proietta le sue ombre lunghe fino all’oggi. Siamo tentati di credere che l’epopea del Cid Campeador o quanto accadde tanto tempo fa sulla Piana dei Merli e a Otranto, o l’arrivo dei polacchi in soccorso di Vienna assediata, siamo tentati di credere che questo ammasso di memorie antiche abbiano avuto un peso non da poco nel plasmare il modo d’essere e di pensare di molti popoli europei. Che esse siano capaci di suscitare ancora oggi echi profondi nel loro animo.

L’identità è per l’appunto anche questo. E si rassicuri la nostra interlocut­rice: nessuno intende cancellare le testimonia­nze della presenza araba nella sua Sicilia, così come non è scritto da nessuna parte che l’identità e le memorie che la nutrono debbano necessaria­mente sfociare in qualche «guerra di civiltà». Proprio dando a ciascuno il suo la storia pacifica; e semmai è precisamen­te quando si cerca di dimenticar­la, sia pure con le migliori intenzioni, che se ne favorisce invece la rivendicaz­ione distorta e aggressiva.

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