La società secolarizzata rischia di smarrire il senso del bene comune
Le riflessioni e i moniti del cardinale Angelo Scola (Marsilio)
Fare ordine nel caos, riflettere su un futuro che non può essere solo tecnologia, risorse da trovare e travaglio di civiltà, odio e buio pesto. Un futuro smarrito, spacchettato nei temi e nelle influenze, che chiama in causa lo spirito, ne precisa i tormenti. Che si alimenta dell’attesa e ci aiuta ad alzare lo sguardo verso nuovi orizzonti. Che tenta di rispondere alle domande capitali esplorando il dubbio e il vuoto, allontanando la temuta condanna alla solitudine, all’abbandono, al narcisismo dantesco (Divina Commedia, Canto XI, Purgatorio, la pena dei superbi). Per cui il dialogo con il prossimo è una montagna da scalare e «l’accoglienza da sola non basta». Se dunque il Cristianesimo è «la più grande narrazione della modernità», che cosa è mai il Postcristianesimo?
Il cardinale Angelo Scola, arcivescovo di Milano dal 2011, nominato da Benedetto XVI, già patriarca di Venezia, ha dedicato un libro alla post secolarizzazione e alla post religione il cui titolo vale come una dichiarazione d’intenti: Postcristianesimo? Il malessere e le speranze dell’Occidente (Marsilio). Restituire valori e certezze a un mondo sfiduciato, in cui l’economia diventa scambio di relazioni, il mercato un fatto di dinamica cultura e il compito virtuoso è contenere la violenza.
Esce il filosofo, s’affaccia il teologo. Pagina dopo pagina, è come se Scola salisse una malferma scala, con i gradini che scricchiolano, e intanto raccontasse il declino europeo, la tragedia dei migranti, l’incremento della povertà, lo sfruttamento ambientale, la pace sfregiata, le ingiustizie radicali che, soprattutto nel Sud del pianeta, «condannano milioni di persone alla miseria fino alla morte per fame». Ancora: la minaccia atomica specchiata nei fatti che portarono al primo conflitto mondiale, in teoria una guerra lampo durata invece fino al 1945; e il declino della politica che vive di sondaggi e di illusioni, secondo la logica del carpe diem, nel bipolarismo onnipotenza/insicurezza, in equilibrio precario tra diritti e doveri, moltiplicando leggi e regole.
Eppure, si chiede Scola, siamo sicuri che la Chiesa, pur estenuata dagli scandali, non abbia più niente da offrire, sia un fiume inaridito? O, come sosteneva il cardinale Carlo Maria Martini nell’ultima intervista a prima di morire, sia «indietro di 200 anni»? Scola sollecita «una nuova laicità» nella società plurale. Indica che la crisi è dappertutto, dentro e fuori di noi, nella comunicazione come nella finanza. Ma la via d’uscita c’è. «A chi sto donando la mia vita?», è la domanda del Buon Cristiano in cammino nel meticciato delle civiltà. Qual è la ragione, si domanda Scola, per cui la politica religiosa si affievolisce nei Paesi cattolici e invece si sviluppa nei Paesi musulmani? L’eclissi consiste nel considerare la fede un’opzione come altre. Non in primo piano, non al primo posto. L’esaltazione della differenza ha portato all’in-differenza: «Il compito della Chiesa in questo tornante di tempo si presenta particolarmente arduo, soprattutto nelle cosiddette questioni miste». Quelle cioè che rincorrono e risistemano i principi dello stare insieme e ci pongono in contatto con i sopraggiunti da mondi lontani, i diversi, gli svantaggiati.
Scola cita dunque papa Bergoglio, de Lubac, Maritain, Taylor, Leopardi, i Padri della Chiesa e Giovanni Battista Montini, futuro Paolo VI, che nel 1962, da arcivescovo di Milano, «invitava al superamento di una malintesa contrapposizione tra sacro e profano». Insiste sulle «cose buone da fare», una formula che richiama i gesti semplici di Francesco, e spinge la politica a convergere verso un «pensiero comune pratico», verso un «insieme di convinzioni volte all’azione». Un bene comune, come insegna san Tommaso, che vale di più del bene dei singoli.