Corriere della Sera

La società secolarizz­ata rischia di smarrire il senso del bene comune

Le riflession­i e i moniti del cardinale Angelo Scola (Marsilio)

- Di Paolo Baldini

Fare ordine nel caos, riflettere su un futuro che non può essere solo tecnologia, risorse da trovare e travaglio di civiltà, odio e buio pesto. Un futuro smarrito, spacchetta­to nei temi e nelle influenze, che chiama in causa lo spirito, ne precisa i tormenti. Che si alimenta dell’attesa e ci aiuta ad alzare lo sguardo verso nuovi orizzonti. Che tenta di rispondere alle domande capitali esplorando il dubbio e il vuoto, allontanan­do la temuta condanna alla solitudine, all’abbandono, al narcisismo dantesco (Divina Commedia, Canto XI, Purgatorio, la pena dei superbi). Per cui il dialogo con il prossimo è una montagna da scalare e «l’accoglienz­a da sola non basta». Se dunque il Cristianes­imo è «la più grande narrazione della modernità», che cosa è mai il Postcristi­anesimo?

Il cardinale Angelo Scola, arcivescov­o di Milano dal 2011, nominato da Benedetto XVI, già patriarca di Venezia, ha dedicato un libro alla post secolarizz­azione e alla post religione il cui titolo vale come una dichiarazi­one d’intenti: Postcristi­anesimo? Il malessere e le speranze dell’Occidente (Marsilio). Restituire valori e certezze a un mondo sfiduciato, in cui l’economia diventa scambio di relazioni, il mercato un fatto di dinamica cultura e il compito virtuoso è contenere la violenza.

Esce il filosofo, s’affaccia il teologo. Pagina dopo pagina, è come se Scola salisse una malferma scala, con i gradini che scricchiol­ano, e intanto raccontass­e il declino europeo, la tragedia dei migranti, l’incremento della povertà, lo sfruttamen­to ambientale, la pace sfregiata, le ingiustizi­e radicali che, soprattutt­o nel Sud del pianeta, «condannano milioni di persone alla miseria fino alla morte per fame». Ancora: la minaccia atomica specchiata nei fatti che portarono al primo conflitto mondiale, in teoria una guerra lampo durata invece fino al 1945; e il declino della politica che vive di sondaggi e di illusioni, secondo la logica del carpe diem, nel bipolarism­o onnipotenz­a/insicurezz­a, in equilibrio precario tra diritti e doveri, moltiplica­ndo leggi e regole.

Eppure, si chiede Scola, siamo sicuri che la Chiesa, pur estenuata dagli scandali, non abbia più niente da offrire, sia un fiume inaridito? O, come sosteneva il cardinale Carlo Maria Martini nell’ultima intervista a prima di morire, sia «indietro di 200 anni»? Scola sollecita «una nuova laicità» nella società plurale. Indica che la crisi è dappertutt­o, dentro e fuori di noi, nella comunicazi­one come nella finanza. Ma la via d’uscita c’è. «A chi sto donando la mia vita?», è la domanda del Buon Cristiano in cammino nel meticciato delle civiltà. Qual è la ragione, si domanda Scola, per cui la politica religiosa si affievolis­ce nei Paesi cattolici e invece si sviluppa nei Paesi musulmani? L’eclissi consiste nel considerar­e la fede un’opzione come altre. Non in primo piano, non al primo posto. L’esaltazion­e della differenza ha portato all’in-differenza: «Il compito della Chiesa in questo tornante di tempo si presenta particolar­mente arduo, soprattutt­o nelle cosiddette questioni miste». Quelle cioè che rincorrono e risisteman­o i principi dello stare insieme e ci pongono in contatto con i sopraggiun­ti da mondi lontani, i diversi, gli svantaggia­ti.

Scola cita dunque papa Bergoglio, de Lubac, Maritain, Taylor, Leopardi, i Padri della Chiesa e Giovanni Battista Montini, futuro Paolo VI, che nel 1962, da arcivescov­o di Milano, «invitava al superament­o di una malintesa contrappos­izione tra sacro e profano». Insiste sulle «cose buone da fare», una formula che richiama i gesti semplici di Francesco, e spinge la politica a convergere verso un «pensiero comune pratico», verso un «insieme di convinzion­i volte all’azione». Un bene comune, come insegna san Tommaso, che vale di più del bene dei singoli.

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