La cronaca, i direttori, le idee. Il mestiere di via Solferino
Ela chiamano cronaca. Come se fosse cosa da due soldi raccontare le storie, le vite, le notizie, i fatti e il vorticare del mondo. Tutto in un giorno, tutto in una manciata di ore. Storie al mattino buone solo per incartare il pesce, come davvero si faceva un tempo quando i giornali si leggevano e si usavano perfino per lavare i vetri. Oppure notizie da prima pagina, quelle che diventano casi, quelle che — si diceva una volta — fanno vendere i giornali.
Eppure l’inizio è sempre lo stesso: con l’ansia di capire, ricostruire, mettere in fila confidenze e soffiate, raccontare. Esiste il giornalismo, ed esiste la cronaca. E se il giornalismo contiene, anzi vive della seconda, non è sufficiente essere un giornalista per essere un cronista. Perché il mestiere si impara ogni giorno, e ci sono regole da rispettare, astuzie, ma nessuna scorciatoia. A patto di volerla fare, la cronaca. «Oggi per molti giornalisti si crede che il massimo della carriera non sia fare il cronista o il grande inviato, ma sia essere insigniti dell’aureola di opinionisti», scrive Giuseppe Gallizzi in Eravamo in via Solferino (editrice Minerva), racconto in prima persona (scritto con Vincenzo Sardelli) dell’ex caporedattore della redazione Lombardia e dell’ufficio centrale del «Corriere della Sera».
Un viaggio «personale» nelle stanze austere di via Solferino, nelle parole dell’allora ragazzo emigrato da Nicotera Marina, in Calabria, sbarcato a Sesto San Giovanni nel ’58. Il palazzo, la sua scalinata liberty, i corrimano d’ottone lucido, i parquet incerati e il centralino, «che rispondeva al secondo squillo». Un giornale che usciva dalla difficile pagina del fascismo e che seppe diventare una voce libera. Certo legata all’establishment
Ricordi L’ex ragazzo di Nicotera Marina e il suo viaggio personale tra le stanze austere del «Corriere»
istituzionale e al rigore, all’autorevolezza, più che alla rincorsa al sensazionalismo. Capace di affidarsi ai suoi «cronisti» migliori, come Alberto Cavallari, e ancora prima al già scrittore di successo Dino Buzzati, e alle sue notti su una volante a raccontare Milano e i suoi cerchi concentrici immobili, ma in perenne mutazione.
Milano, certo. Perché il più importante quotidiano d’Italia era soprattutto il primo foglio d’informazione della sua città. E se non esiste via Solferino senza «Corriere», è impossibile pensare a un giornale che ignori la terra nella quale affonda le sue radici. Franco Di Bella è stato — secondo Giuseppe Gallizzi — l’interprete più autentico di questo spirito. Partito proprio dalla Cronaca, fino ad arrivare alla poltrona più alta di via Solferino, Di Bella — prima di essere travolto insieme al suo «Corriere» dallo scandalo P2 —, «aveva la pretesa, la capacità di arrivare sulla notizia prima di chiunque altro. Sapeva leggere la realtà, fiutava le notizie». E sono molti i nomi dei cresciuti nella sua fucina, da Luciano Visentin, a Mino Durand, fino al poeta della nera Fabio Mantica. Nelle pagine c’è la storia del «Corriere della Sera», la crisi, il ritorno di una proprietà lontana dai giochi della finanza. Albertini, Spadolini, Ottone, Ostellino fino al duo de Bortoli-Mieli. E la certezza di esserci. E di essere in edicola anche domani.