Nella Milano del 1963 amori e delitti ai tempi del boom
Palazzoni, amori e affari loschi. Un’indagine ambigua nella Milano del boom
La Rossa che dà il titolo al romanzo di Daniele Manca in uscita da Rizzoli non è una donna dai capelli fulvi, sebbene l’amore disperato per una donna dai «capelli color rame» sia all’origine di questa storia la quale, a proposito di colori, è decisamente un misto riuscito di giallo e di noir, con il nerissimo del petrolio a fare da fonte di tutti i mali. Non è la tinta di una storica bandiera, anche se la politica fa da sfondo a una vicenda situata nell’Italia del 1963, anno di svolta in cui il centrosinistra è agli albori ma il Pci di Palmiro Togliatti (ancora per un anno) fa un balzo elettorale che destabilizza gli assetti di potere, sgretola il senso di sicurezza in cui l’Italia, nel lustro del poderoso boom economico che l’avrebbe stravolta e modernizzata, sembrava non potesse deragliare mai. La Rossa è una Giulietta, l’amatissima Giulietta che Carlo, il protagonista del romanzo di Manca, il giornalista sfigato che si aggira per le trattorie milanesi dove la solitudine sembra presa pari pari da un quadro di Edward Hopper e trasferita nelle nebbie di Milano, tratta come una vera amante. La Giulietta che non è solo una macchina, ma anche un rifugio dell’anima e del corpo quando «vuoi stare solo e devi rimettere in ordine le cose», dove addirittura Carlo «ci leggeva il giornale» invece che su una scomoda panchina. La Giulietta, un’automobile-simbolo che riporta al 1963, insieme a tante marche e oggetti oramai obsoleti disseminati in queste pagine da Daniele Manca per restituire il senso e il paesaggio mentale e di consumi di quell’anno tanto decisivo: l’impermeabile Rhodiatoce, le cronache mondane di Camilla Cederna, il carciofo del marchio Cynar, il giradischi Lesa, le Super senza filtro, il brandy Stock 84, il televisore Phonola e tanti altri. E poi Rocco e i suoi fratelli, e Il cielo in una stanza.
Il romanzo di Manca, vicedirettore del «Corriere» con competenza speciale nel campo del giornalismo economico, dimostra che la frequentazione della «scienza triste», come è stata ribattezzata l’economia, non cancella la predilezione per una prosa calda, empatica, intrisa, se così si può dire, di un senso dell’umano che spesso viene sepolta nel freddo delle costruzioni intellettualistiche che funestano la letteratura contemporanea. Manca è attratto dalle atmosfere della Milano del ’63, le case di ringhiera con i ballatoi, le «Coree», i grandi stabilimenti industriali, il palazzone della Rai, le osterie che non si chiamavano ancora «enoteche» e dove il vino era raccolto e versato in grandi damigiane e stava nei fiaschi e dove si mangiava per pochi soldi, a parlare di calcio e di politica. Vite difficili, come quella di Carlo, redattore del «Giorno», che si trova suo malgrado coinvolto in un affare losco in cui non avrebbe mai voluto entrare e in cui invece viene gettato dentro da un direttore che lo sceglie come testa d’ariete per scoprire le magagne di un concorrente nel ramo del petrolio e da una donna, la complicata, volitiva, fascinosa, temeraria Enrica, emblema di quel giornalismo d’assalto che Carlo non vorrebbe mai seguire. Ci sono due camionisti morti ammazzati, i traffici di un petroliere molto più pericoloso degli stessi reati di evasione fiscale che sono acclarati, un giudice ambiguo e doppiogiochista, uno scenario in cui non si sa mai bene chi siano i buoni e chi i cattivi, una femme fatale enigmatica e torbida (come è nelle tradizione di un buon noir). E poi la politica, di cui Manca offre rapidi tasselli per costruire insieme al lettore il mosaico in cui i buoni e i cattivi si mescolano, si intrecciano, fino a coincidere, a convivere nelle stesse persone. E poi c’è un giornalismo che in queste pagine non fa esattamente un figurone smagliante, fatto di velleitarismi, di complicità, oppure di semplice accondiscendenza agli interessi del padrone di turno che viene scambiata per una passione pura e disinteressata per la notizia (che riguarda il nemico). C’è il 1963, che Manca descrive come la linea di demarcazione che divide due epoche, l’occasione mancata dai partiti e dall’opinione pubblica e da cui l’Italia uscirà peggiore, imbruttita, anche un po’ manichea, dove non si salva la giustizia, la politica, il giornalismo, l’economia.
Attenzione, non è la descrizione di un romanzo politico travestito da giallo. È uno spicchio di realtà italiana guardato dal punto di vista di un giornalista che non sa entrare nelle grazie del potere ma nemmeno del contropotere, dai riti del contropotere di cui la donna amata, Enrica, è invece una rappresentante tipica. In una Milano che non c’è più, e in una Sardegna che non c’è più, e forse persino in una Portofino che non c’è più, si srotola la trama delle trame, in cui ciò che è non è quel che appare e viceversa, come una
commedia di Pirandello portata al Nord e il protagonista Carlo, nel grigio industriale della città, nel rosso della sua fiammante Giulietta, nel giallo di un delitto irrisolto, nel rosa sporco di una storia d’amore un po’ disperata, si fa intrappolare da una storia di cui non si comprendono i contorni. Non si fa lo spoiler, non si dice come va a finire. Ma si sa come è andata a finire l’Italia del ’63 in cui il romanzo di Daniele Manca si svolge, si sa come l’Italia ha perso la sua innocenza, come il povero Carlo che non sa più capire il dritto e il rovescio di questa vicenda tanto opaca e che si rifugia nell’abitacolo della sua amata Giulietta, l’unico grande amore che in questa Italia slabbrata e affranta riesce, tristemente, a salvarsi.