Dubke lascia prima del siluramento The Donald prepara un rimpasto E riecco i falchi (Bannon in testa)
WASHINGTON È il primo ad andarsene di sua iniziativa. Michael Dubke ha retto solo tre mesi: il 18 maggio si è dimesso dalla carica di direttore della comunicazione alla Casa Bianca. L’uscita, però, è stata ufficializzata solo ieri e con la giustificazione più classica e, spesso meno sincera: «motivi personali». Dubke, 47 anni, nato nello Stato di New York, fa politica da 25, al servizio di senatori o governatori del partito repubblicano. Giornali e televisioni americani leggono la sua partenza come il segnale di cambiamenti radicali in arrivo nella squadra dei portavoce.
Donald Trump non è soddisfatto: troppe fughe di notizie, poca efficacia in difesa. A questo punto in tanti rischiano il posto: a cominciare dal «press secretary», Sean Spicer. Anzi, secondo alcune voci, Dubke avrebbe solo anticipato il suo licenziamento, evitando di essere scaricato, più o meno brutalmente, dal boss dello Studio Ovale. I precedenti sono ormai numerosi. Trump si è via via sbarazzato di personaggi che pure sembravano destinati ad ascesa sicura. L’elenco potrebbe cominciare con l’ex governatrice dell’Alaska Sarah Palin, la prima a comparire in un comizio con «The Donald». Poi Chris Christie , governatore del New Jersey, avversario alle primarie, convertitosi in trumpiano di ferro, coordinatore del «gruppo di transizione» solo per un breve periodo. L’ex sindaco di New York, Rudy Giuliani, che si era illuso di poter diventare addirittura Segretario di Stato. Corey Lewandowski, il capo della campagna elettorale nella fase più spregiudicata. Infine Michael Flynn, l’ex generale, nominato consigliere per la Sicurezza nazionale, coinvolto nel «Russiagate».
Ma il caso Dubke racconta qualcosa di importante sugli equilibri dentro la Casa Bianca. In queste ore circola questa versione: Dubke se n’è andato perché non riusciva a «disciplinare» le uscite di Trump. D’accordo, ma le sue dimissioni non si possono ridurre a un orgoglioso scatto di nervi. È, invece, raccontano al Corriere fonti del Senato e della Casa Bianca, una frattura politica nata proprio nella fase di preparazione del viaggio in Europa. Al quartier generale della Nato, al G7 di Taormina, il presidente non ha improvvisato, non ha twittato. Ha letto discorsi scritti, si è attenuto a un piano preparato con cura che prevedeva posizioni rumorose sui contributi per la Difesa, sul clima, sull’immigrazione, sul commercio. È il ritorno a una linea più dura, predicata dai generali del Pentagono, dal consigliere economico Gary Cohn, dall’estremista Steve Bannon, in pieno recupero. Ecco perché al posto di Dubke, Trump potrebbe ripescare lo spigoloso Lewandowski.