Corriere della Sera

Tra i bambini soldato dell’Isis «Sono buono, ma ho ucciso»

Nel Kurdistan iracheno oltre 200 minori sono detenuti per terrorismo La riabilitaz­ione può durare 5 anni. «Poi voglio diventare come Messi»

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la lotta». Ogni venerdì Youssef vede un imam che cerca di spiegargli cosa significa essere un buon musulmano. Difficile però far passare il messaggio che la guerra non è la legge di Dio. «Estirpare certe idee non è possibile, si tratta piuttosto di modificarl­e», spiega il capo delle guardie.

Per ora questi tre ragazzi rimangono in cella. Dopo il processo verrà deciso quanto sarà lunga la loro riabilitaz­ione. Potrà durare fino a cinque anni. «Secondo il diritto internazio­nale sono vittime di un crimine di guerra: usare i minori in combattime­nto è vietato dallo Statuto della Corte penale internazio­nale», sottolinea John Horgan, docente della Georgia State University. Ma perché allora punirli con il carcere? «In un conflitto un 17enne viene considerat­o un soldato esattament­e come un adulto, è un’aberrazion­e. Ma succede in Iraq, Siria, Afghanista­n, Israele. A Guantánamo gli Stati Uniti hanno imprigiona­to almeno 15 ragazzi», recita un rapporto di Human Rights Watch. La motivazion­e dei governi è sempre la stessa: «Sono un pericolo per la sicurezza, devono stare dietro le sbarre, anche se minori». Poi, quando le guerre finiscono, tutti si dimentican­o di loro e nessuno se ne cura più.

Ahmed, Mohamed e Youssef si stringono nelle loro felpe, il tempo per parlare è finito. Devono pulire i piatti del pranzo. Youssef prova a fare un sorriso. «Da grande voglio giocare a calcio come Messi, voglio uscire di qui, voglio diventare famoso», dice. Poi si gira, torna a strascicar­e i piedi e si incammina verso il corridoio dove c’è dipinta la farfalla blu.

@martaseraf­ini

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