Corriere della Sera

Agricoltur­a, allarme caporalato: cresce nei Paesi dell’Ue

Punte del 60% in Portogallo, quasi il doppio dell’Italia. Livia Pomodoro: «Si muova l’Europarlam­ento»

- Paolo Virtuani @PVirtus

Ieri: tre arresti a Padova per lo sfruttamen­to di immigrati nel settore della logistica, 29 denunce a Isernia (pagavano 20 euro per 14 ore di lavoro nei campi). Quattro giorni fa: due arresti nel Foggiano dopo la scoperta di un nuovo «ghetto» di bulgari per la coltivazio­ne degli asparagi. Due settimane fa: in provincia di Latina Emergency ha portato alla luce l’uso di droghe contro la fatica tra i braccianti Sikh per reggere 12 ore di lavoro in serre e stalle. Il caporalato in agricoltur­a in Italia forse non è mai stato tanto florido come in questi anni di crisi e di flussi migratori. Ma il problema è europeo e c’è chi sta peggio di noi.

All’Europarlam­ento

«Manca una definizion­e comune europea di lavoro illegale in agricoltur­a», spiega Livia Pomodoro, presidente del Milan Center for Food Law and Policy (Mcflp), struttura di ricerca che si occupa di legislazio­ne legata al diritto al cibo e allo sviluppo sostenibil­e. «Oggi presentiam­o all’Europarlam­ento di Bruxelles — prosegue l’ex presidente del Tribunale di Milano — un rapporto sulle migliori iniziative per avere sulle nostre tavole alimenti sostenibil­i anche dal punto di vista etico, cioè che non siano prodotti sfruttando il lavoro nero o illegale».

Il rapporto

Realizzato insieme a Coop, il rapporto parte da dati allarmanti «che sono anche difficili da reperire a causa delle differenze normative e delle diverse percezioni dello sfruttamen­to nel lavoro agricolo nei Paesi europei», spiega Marco Pedol, che ha diretto il progetto dell’Mcflp, uno dei lasciti di Expo 2015. Il tasso di lavoro irregolare tocca livelli del 60% in Portogallo, del 50% in Bulgaria, del 40% in Romania. In Italia oscilla fra 30 e 50%, in Spagna, Polonia e Grecia si assesta tra il venti e il 30% (dati Effat 2010). Ma nessuna nazione dell’Ue è immune: Austria, Germania e Francia sono i Paesi più virtuosi con tassi di lavoro illecito sotto il 10%, ma in altre realtà esistono situazioni di sfruttamen­to che possono essere paragonate a condizioni di semischiav­itù. Con i più deboli (donne, minori, immigrati irregolari) a pagare le conseguenz­e più pesanti.

Il ruolo dei consumator­i

In Italia nel 2016 la legge 199 ha ridefinito il lavoro nero in agricoltur­a, dando maggiore forza alla lotta contro il caporalato. «Un grande impulso può venire dai consumator­i che chiedono e cercano un prodotto “pulito”», aggiunge Pedol. «La spinta dal basso è un fattore importante per imporre da un lato ai coltivator­i il rispetto delle leggi e della giusta retribuzio­ne dei lavoratori agricoli, e dall’altro spingere i commercian­ti (fondamenta­le diventa l’esempio della Grande distribuzi­one organizzat­a) a scartare chi non è in grado di garantire un prodotto etico».

Le buone pratiche

Il rapporto non si limita a segnalare i problemi, ma propone esempi di successo che hanno visto il lavoro comune di istituzion­i, sindacati, organizzaz­ioni non governativ­e e distribuzi­one. Come il Presidio Caritas, la regolament­azione della raccolta dell’uva in Francia, la campagna Buoni e giusti di Coop, l’Hortosabor Mediterran­eo in Spagna, la legge provincial­e di Trento sui lavoratori stagionali, considerat­a tra le più avanzate a livello continenta­le.

Un marchio di qualità

«La politica agricola dell’Ue non può essere fatta solo di sussidi. Portiamo le tematiche

Non solo sussidi «L’Ue non può limitarsi ai sussidi. Ci vogliono regole per il rispetto dei lavoratori»

delle regole e del rispetto dei lavoratori agricoli all’attenzione dell’Europa — conclude Pedol —. Non è detto che prima o poi, come per i prodotti biologici, non si possa arrivare a un marchio certificat­o per chi ha coltivato o allevato un animale “senza l’utilizzo di lavoratori sfruttati”».

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