Agricoltura, allarme caporalato: cresce nei Paesi dell’Ue
Punte del 60% in Portogallo, quasi il doppio dell’Italia. Livia Pomodoro: «Si muova l’Europarlamento»
Ieri: tre arresti a Padova per lo sfruttamento di immigrati nel settore della logistica, 29 denunce a Isernia (pagavano 20 euro per 14 ore di lavoro nei campi). Quattro giorni fa: due arresti nel Foggiano dopo la scoperta di un nuovo «ghetto» di bulgari per la coltivazione degli asparagi. Due settimane fa: in provincia di Latina Emergency ha portato alla luce l’uso di droghe contro la fatica tra i braccianti Sikh per reggere 12 ore di lavoro in serre e stalle. Il caporalato in agricoltura in Italia forse non è mai stato tanto florido come in questi anni di crisi e di flussi migratori. Ma il problema è europeo e c’è chi sta peggio di noi.
All’Europarlamento
«Manca una definizione comune europea di lavoro illegale in agricoltura», spiega Livia Pomodoro, presidente del Milan Center for Food Law and Policy (Mcflp), struttura di ricerca che si occupa di legislazione legata al diritto al cibo e allo sviluppo sostenibile. «Oggi presentiamo all’Europarlamento di Bruxelles — prosegue l’ex presidente del Tribunale di Milano — un rapporto sulle migliori iniziative per avere sulle nostre tavole alimenti sostenibili anche dal punto di vista etico, cioè che non siano prodotti sfruttando il lavoro nero o illegale».
Il rapporto
Realizzato insieme a Coop, il rapporto parte da dati allarmanti «che sono anche difficili da reperire a causa delle differenze normative e delle diverse percezioni dello sfruttamento nel lavoro agricolo nei Paesi europei», spiega Marco Pedol, che ha diretto il progetto dell’Mcflp, uno dei lasciti di Expo 2015. Il tasso di lavoro irregolare tocca livelli del 60% in Portogallo, del 50% in Bulgaria, del 40% in Romania. In Italia oscilla fra 30 e 50%, in Spagna, Polonia e Grecia si assesta tra il venti e il 30% (dati Effat 2010). Ma nessuna nazione dell’Ue è immune: Austria, Germania e Francia sono i Paesi più virtuosi con tassi di lavoro illecito sotto il 10%, ma in altre realtà esistono situazioni di sfruttamento che possono essere paragonate a condizioni di semischiavitù. Con i più deboli (donne, minori, immigrati irregolari) a pagare le conseguenze più pesanti.
Il ruolo dei consumatori
In Italia nel 2016 la legge 199 ha ridefinito il lavoro nero in agricoltura, dando maggiore forza alla lotta contro il caporalato. «Un grande impulso può venire dai consumatori che chiedono e cercano un prodotto “pulito”», aggiunge Pedol. «La spinta dal basso è un fattore importante per imporre da un lato ai coltivatori il rispetto delle leggi e della giusta retribuzione dei lavoratori agricoli, e dall’altro spingere i commercianti (fondamentale diventa l’esempio della Grande distribuzione organizzata) a scartare chi non è in grado di garantire un prodotto etico».
Le buone pratiche
Il rapporto non si limita a segnalare i problemi, ma propone esempi di successo che hanno visto il lavoro comune di istituzioni, sindacati, organizzazioni non governative e distribuzione. Come il Presidio Caritas, la regolamentazione della raccolta dell’uva in Francia, la campagna Buoni e giusti di Coop, l’Hortosabor Mediterraneo in Spagna, la legge provinciale di Trento sui lavoratori stagionali, considerata tra le più avanzate a livello continentale.
Un marchio di qualità
«La politica agricola dell’Ue non può essere fatta solo di sussidi. Portiamo le tematiche
Non solo sussidi «L’Ue non può limitarsi ai sussidi. Ci vogliono regole per il rispetto dei lavoratori»
delle regole e del rispetto dei lavoratori agricoli all’attenzione dell’Europa — conclude Pedol —. Non è detto che prima o poi, come per i prodotti biologici, non si possa arrivare a un marchio certificato per chi ha coltivato o allevato un animale “senza l’utilizzo di lavoratori sfruttati”».