I 4 anni di indagini che hanno rimpatriato i fondi dei Riva
L’inchiesta della procura di Milano, dal ruolo della holding di famiglia fino agli 1,3 miliardi tornati in Italia
Il dieci per cento coprirebbe per anni i costi dell’ufficio, con l’ uno si rimetterebbero in sesto gli organici di magistrati ed amministrativi, ma alla Procura di Milano, com’è ovvio, del miliardo e 330 milioni arrivati dall’inchiesta sull’Ilva non resterà nulla, a parte la soddisfazione di aver chiuso in quattro anni una vicenda giudiziaria che ha portato nelle casse dello Stato quanto la prossima manovra finanziaria destina per 15.100 assunzioni nella scuola fino al 2026.
Se i commissari straordinari dell’Ilva hanno un capitale lo si deve a una strategia investigativa e giudiziaria, al supporto del governo anche a livello diplomatico, all’ azione dei legali dei protagonisti e alla volontà dei Riva, ex proprietari dell’Ilva, di chiudere una vicenda che rischiava di travolgere l’intera famiglia. I contorni di questa indagine a ottobre 2012 erano ancora troppo sfumati per predire la direzione che avrebbe preso negli anni successivi. Dall’arresto a Taranto di Emilio e Fabio Riva, gli accertamenti della Guardia di finanza in quel momento puntano ai trust dietro i quali si sospetta si nasconda il patrimonio dei Riva. I pm milanesi Stefano Civardi e Mauro Clerici confermano che i soldi dei trust (allocati tra la Svizzera e Jersey, l’isola inglese del Canale) sono dei Riva e il 20 maggio ne ottengono il sequestro dal gip Fabrizio D’Arcangelo che così blocca un miliardo e 183 milioni. L’inchiesta lavora sui rapporti tra i Riva e la Riva Fire, la holding di famiglia, ed in un filone nel gennaio 2014 porta ad arresti e al sequestro di 100 milioni. Il relativo processo si conclude con le condanne di Fabio Riva e di altri imputati. Intanto la guida dell’Ilva passa nelle mani dei commissari e la società viene dichiarata insolvente a gennaio 2015 su richiesta dei pm che nel 2016 chiedono il fallimento di Riva Fire, che era in liquidazione e ha un debito di circa 300 milioni nei confronti di Riva forni elettrici, altra società del gruppo, che l’ha finanziata consentendole di ripianare le pendenze con le banche. Una mossa strategica alla quale si aggiunge la richiesta di fallimento di Riva Fire che, se fosse arrivato, avrebbe fatto crollare l’intero sistema a partire dal gioiello di famiglia Riva forni elettrici. Questo apre la strada all’accordo transattivo tra Adriano Riva e i commissari firmato il 24 maggio scorso ed inserito lo stesso giorno nel patteggiamento, ratificato dal gip Chiara Valori, tra la procura guidata da Francesco Greco e lo stesso Riva imputato per bancarotta fraudolenta dell’Ilva e della Riva Fire di cui era amministratore delegato e di trasferimento fraudolento di beni. La pena: due anni e mezzo di carcere (sospesa). I soldi saranno impiegati nell’acciaieria per la tutela ambientale e sanitaria e per la bonifica.