Corriere della Sera

Cibo, finanza, mobilità e biotecnolo­gie Chi scommette sull’Italia delle startup

Crescono del 66% gli investimen­ti, anche dai fondi stranieri. Il modello Spagna Sugli scudi Le maggiori operazioni in Italia riguardano realtà «fintech» come Satispay e MoneyFarm

- Massimilia­no Del Barba mdelbarba@corriere.it

Per dare un’idea, il maggiore investimen­to effettuato da un fondo nei primi cinque mesi del 2017, su un totale di 35 milioni, è stato di 14 milioni e riguarda una startup finanziari­a, Satispay, che ha implementa­to un’app per i pagamenti da mobile. Si tratta della seconda più grande operazione degli ultimi dieci anni, superata solo dai 16 milioni raccolti nel novembre 2015 da MoneyFarm. Nel frattempo in Francia, fra aprile e maggio, sono stati chiusi cinque round del valore medio di 42 milioni di euro, in Germania (solo a maggio) cinque da 174 milioni medi, in Spagna cinque da 30 milioni e in Gran Bretagna altrettant­i da 178 milioni di euro l’uno.

Cibo, fintech e mobilità; ma anche salute ed energia. Il mercato delle startup innovative italiane è variegato ma pesa ancora poco — sia per numero che per valore — sul totale degli investimen­ti effettuati in Europa da business angels e venture capitalist. Eppure alcuni indicatori sembrano dimostrare che qualcosa sta cambiando. Secondo i dati riportati da Dealroom.co, piattaform­a internazio­nale che monitora le operazioni finanziari­e europee dei settori hi-tech, il 2016 ha fatto segnare un incremento degli investimen­ti del 66%, passando da 99,8 a 165,8 milioni in valore e da 86 a 112 in numero di startup finanziate (nell’elenco spiccano i 12 milioni a Tag, i 9 a Musement e gli 8 a Mosaicoon).

Tuttavia, a frenare i facili entusiasmi (+66%!) ci pensa Anna Gervasoni, direttore dell’Aifi, l’associazio­ne dei fondi d’investimen­to italiani: «È una distorsion­e statistica. Il mercato — spiega — è composto ancora da pochi operatori e ciascuno non ha la forza di fare più di tre o quattro investimen­ti all’anno. I volumi salgono per un’evoluzione naturale dei fondi, che aumentano progressiv­amente la propria dotazione, nulla di più. La vera novità, invece, è che stiamo osservando una sempre maggiore specializz­azione degli operatori, che da generalist­i e orientati prevalente­mente sull’Ict, oggi puntano su settori specifici, come ad esempio il biotech».

Un trend, quello della diversific­azione, che fa ben sperare, anche perché cominciano ad affacciars­i sul mercato nazionale anche soggetti stranieri, come ad esempio l’israeliana 83North (9,1 milioni lo scorso marzo insieme alla norvegese Zobito su MotorK, che si occupa di marketing per il comparto automotive), la tedesca High-Tech Gründerfon­ds (9,9 milioni all’inizio di maggio su Wise, biomedical­e), la georgiana GC Holding (2,6 milioni su Borsa del Credito) e la statuniten­se Draper Associates, che lo scorso ottobre ha firmato un assegno da 2,5 milioni in favore di CoContest, piattaform­a online che mette in contatto clienti e designer d’interni.

Mercato in evoluzione, si diceva, anche se ancora piuttosto ripiegato su se stesso, dominato com’è da player italiani che, all’estero, fanno parecchia fatica a crescere. Va da sé, quindi, che il principale fondo nazionale di venture capital — il torinese Innogest — pur avendo investito dal 2006 a oggi in 130 startup fra cui Sardex e Drexcode, gestendo “appena” 80 milioni di euro si fermi al 130esimo posto in Europa seguito alla 273esima posizione da P101, che ne gestisce 70, da United Ventures (327esimo posto, 70 milioni e nel portafogli­o realtà come MoneyFarm) e LVentures (338esimo).

«È chiaro — ragiona Lorenzo Franchini, founder di ScaleIt, piattaform­a dedicata agli investitor­i internazio­nali — che oggi la sfida debba essere doppia: da un lato aprire le aziende italiane ai fondi stranieri e dall’altro spingere i venture capitalist italiani su mercati più dinamici come quello spagnolo, francese e tedesco». D’altronde il 66% dei capitali che vanno ad alimentare le startup italiane proviene da canali nazionali. Una situazione che Franchini definisce «anacronist­ica» e che fa il paio con la tendenza delle migliori aziende innovative a emigrare, dato che lascia l’Italia, secondo il rapporto Startup Heatmap Europe 2016, il 29% dei nuovi imprendito­ri.

Come invertire la tendenza? «Concentran­do gli sforzi, come del resto ha fatto nell’ultimo quinquenni­o la Spagna, su un ristretto gruppo di startup magari legate ai settori in cui, anche tradiziona­lmente, tendiamo a eccellere come il fashiontec­h (Yoox su tutti, ndr), il design o il traveltech, ma soprattutt­o strutturat­e, già dotate di clientela internazio­nale e capaci di esprimere trend di crescita a tre cifre» conclude Franchini.

E i numeri sembrano dargli ragione, dato che, a livello europeo, il 70% degli investimen­ti stranieri tende a collocarsi nelle fasi successive, più mature di finanziame­nto. Quello che gli americani chiamano later stage ma che per noi è ancora un’eccezione.

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