Davigo vertical
Nell’Italia delle giravolte e degli scarti improvvisi, che se fosse una pedina degli scacchi sarebbe il cavallo, si rimane colpiti dalla coerenza di Piercamillo Davigo. Ci sono politici e magistrati che hanno cambiato più idee che calzini, leader che lasciano sventolare le proprie opinioni al vento volubile dei sondaggi e compulsatori frenetici di tastiere che si contraddicono nel giro di un tweet. Di Davigo, invece, si sa sempre che cosa pensa, forse perché pensa sempre la stessa cosa. Dicono che solo gli stupidi non cambino mai opinione, ma ogni regola ha la sua eccezione e Davigo non è affatto uno stupido. Però è cresciuto con l’immagine di De Gasperi che va in visita ufficiale a Washington indossando un cappotto preso in prestito, perché il suo è troppo liso, e non c’è verso di fargliela cambiare con una più sensibile alle ragioni del cachemire.
Vent’anni fa, a chi gli chiedeva la ricetta per scongiurare il ripetersi di Tangentopoli, rispose: «Basterebbe smettere di rubare». Vasto e disatteso programma, se recentemente lo stesso Davigo ha dichiarato che i politici della Seconda Repubblica non hanno smesso di farlo, ma soltanto di vergognarsene. Ieri, invitato a un convegno dei Cinquestelle che era una sorta di investitura per Palazzo Chigi, se n’è sottratto a modo suo: bruscamente. «Non sono interessato alla politica, ma ai politici che rubano» ha detto, anzi ridetto e stradetto. Aggiungendo di non avere un carattere abbastanza flessibile per quel mestieraccio. Davigo è un Robespierre che, proprio perché sa di esserlo, non brama di diventarlo.