Corriere della Sera

In politica? Davigo dice no, Di Matteo lascia una porta aperta

- Nino Di Matteo di Giovanni Bianconi

A chi avesse ancora voglia di proporgli una poltrona di governo, Piercamill­o Davigo ribadisce che non l’accettereb­be: «Ho dato dimostrazi­one nella vita che non sono interessat­o alla politica, mi occupo di politici quando rubano, che è cosa diversa. Ritengo che i magistrati non siano capaci di fare politica». Dunque non farà il ministro della Giustizia? «Mai». La platea — per lo più grillina — che assiste al convegno organizzat­o a Montecitor­io dal Movimento 5 Stelle resta un po’ delusa, l’ipotesi che l’ex presidente dell’Associazio­ne magistrati potesse lasciare la toga per un seggio parlamenta­re era stata accolta con un sonoro «magari». Ecco perché la diversa risposta arrivata dal pm palermitan­o antimafia Nino Di Matteo — «non parlo dell’eventuale mio impegno politico, ma dico che non sono d’accordo con Davigo e con chi pensa che l’esperienza di un magistrato non possa essere utile alla politica» — viene accolta dal leader pentastell­ato Luigi Di Maio come «una buona notizia».

I tentativi di portare Davigo al governo risalgono al lontano 1994, quando Berlusconi voleva nominare Antonio Di Pietro al Viminale e Alleanza nazionale propose l’altro ex pm di Mani Pulite come Guardasigi­lli. Ma Davigo oggi spiega che è una carica che «conta poco o niente: il ministro degli Esteri può spostare gli ambasciato­ri, quello dell’Interno prefetti e questori, il ministro della Giustizia non può spostare presidenti di Corti d’appello o procurator­i generali». Poi lancia una stoccata all’attuale titolare di quel dicastero: «Hanno disatteso tutte le promesse fatte sulla riforma della giustizia», e aggiunge che forse Andrea Orlando lo preoccupa più di Matteo Renzi. «Quando l’Anm disertò l’inaugurazi­one dell’anno giudiziari­o per protesta — racconta — disse che le promesse mancate non si potevano addebitare al governo che nel frattempo era cambiato. Gli chiesi che cosa sarebbe successo se Incontro Luigi Di Maio e Piercamill­o Davigo, tra loro il deputato Alfonso Bonafede e il magistrato Gioacchino Natoli (Imagoecono­mica) fosse stato ministro dell’Economia e se si fosse permesso di annunciare ai mercati che non pagava più i titoli di Stato, perché è esattament­e la stessa cosa...».

Ribadito che anche la riforma della giustizia che Orlando cerca di portare avanti da più di tre anni (dal destino ancora incerto) non servirà a migliorare le cose, e anzi per certi aspetti «oltre che inutile è pure dannosa», Davigo torna a dire che nel contrasto alla corruzione non ci sono molte differenze fra destra e sinistra: «Si sono sempre dati da fare non per contrastar­la, ma per contrastar­e le indagini sulla corruzione». Applausi. Ma a bene vedere una distinzion­e si può fare: «Il centrodest­ra ne ha fatte di così grosse e così male che di solito non hanno funzionato, mentre il centrosini­stra se non ci ha messo in ginocchio almeno ci ha genuflessi». Dunque il bilancio finale del centrosini­stra è peggiore, e il giudice che presiede una sezione della Cassazione chiarisce il concetto con l’esempio delle false fatturazio­ni, solitament­e utilizzate per accumulare provviste e pagare tangenti: «Hanno stabilito che sono un reato purché si riverberin­o sulle dichiarazi­one dei redditi oltre una certa soglia; in pratica la “modica quantità” che vogliono togliere per la droga».

Per risolvere le difficoltà delle indagini e dei processi ai politici corrotti, Davigo ripropone la ricetta dell’agente sotto copertura e cita gli Stati Uniti: «Lì dopo le elezioni si fanno il test di integrità, mandano i poliziotti a offrire denaro agli eletti, e chi accetta viene arrestato». Standing ovation finale.

Non parlo del mio eventuale impegno, ma non sono d’accordo con Davigo e con chi pensa che l’esperienza di un magistrato non possa essere utile alla politica

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