Massacrata tre anni fa, preso il figlio
Catania, colpita al cimitero con una pietra. Lui, incastrato dal Dna, è sottufficiale in Marina L’ipotesi degli investigatori: la riteneva un ostacolo perché non le piaceva la sua fidanzata
Erano una messinscena i pianti di disperazione. E anche l’idea di mettere una taglia sugli assassini della madre, uccisa a pietrate davanti alla tomba di famiglia. E adesso, a tre anni dal delitto, ormai a poche settimane dal matrimonio con la stessa fidanzata che sua madre detestava, tutto avrebbe immaginato tranne di essere arrestato all’alba con l’accusa di avere massacrato questa povera donna di 59 anni, Maria Concetta Velardi, ogni pomeriggio al cimitero di Catania per pregare davanti alla gentilizia del marito e di un altro figlio morto per malattia nel 2009.
Ogni pomeriggio. Anche il 7 gennaio del 2014 quando Angelo Fabio Matà, un omone alto quasi due metri, sottufficiale della Marina militare, accolse in lacrime i primi agenti della polizia scongiurando di trovare i responsabili. Pronto perfino a suggerire le piste da seguire su due presunti corteggiatori della madre, ovvero su due rumeni impegnati in piccoli lavoretti nel cimitero di Catania. Come se dietro il massacro potesse esserci una love story finita male o la rapina di due balordi. Ipotesi quest’ultima subito esclusa perché la signora Maria Concetta, colpita una prima volta da un sasso in testa, poi trascinata in un vialetto e finita scaraventandole addosso blocchi di pietra da venti chili, capaci di fracassare cranio e torace, fu Il sottufficiale Angelo Fabio Matà arrestato dalla Polizia per l’omicidio della madre trovata con una collana al collo, un bracciale insanguinato, la borsa ai piedi con il portafogli dentro. Una violenza inaudita, preceduta intorno alle 15.30 di quel maledetto pomeriggio da urla avvertire da un paio di testimoni rivelatisi preziosi per confermare le contraddizioni del soldato Matà.
Ma se, dopo tre anni di indagini condotte sotto la guida del dirigente della Mobile Antonio Salvago, si è arrivati all’incriminazione di questo figlio dalla doppia personalità il merito si deve anche alla polizia scientifica che ha incrociato il Dna rilevato sulle unghie Fu lui a suggerire ai poliziotti di indagare su presunti spasimanti e su due operai dell’Est della povera vittima con quello di una goccia di sangue rinvenuta sulla portiera dell’auto di Matà. Hanno avuto il loro peso anche le immagini delle telecamere di sorveglianza per documentare che il figlio, al contrario di quanto detto, non aveva scoperto il cadavere insanguinato alle 17 dopo essersi allontanato dal cimitero per un caffè.
Alibi sbriciolati dall’inchiesta coordinata dal pm Giuseppe Sturiale e vagliata dal gip Alessandro Ricciardolo, convinti che il movente stia nei contrasti insorti su quella fidanzata, adesso vicina alle nozze con Matà dopo la nascita di un bimbo avuto l’anno scorso. Quel 7 gennaio parlavano di questo rapporto madre e figlio. Con la signora Maria Concetta decisa a non presentarsi a un incontro fissato per il giorno 12 con i genitori della fidanzata. Deve essere stato un no deciso, seguito dalla furibonda reazione di Angelo Fabio Matà, dalla prima sassata, dalle urla di una donna costretta a difendersi con le braccia, fratturate dai colpi inferti con quei blocchi di pietra trovati rossi di sangue. Compreso quello dell’assassino, poi allontanatosi per più di un’ora. Non per il caffè, ma per ricomporsi, lavarsi e trovare un complice o una complice di un epilogo non ancora completo.
è stata uccisa nel cimitero di Catania il 17 gennaio 2014. Fu ritrovata con la testa fracassata da un masso di pietra lavica
Accusato del delitto è il figlio Angelo Fabio Matà, 43 anni, sottufficiale della Marina militare
Alla base dell’omicidio ci sarebbero dissidi familiari
«Bisogna trovare un punto di equilibrio tra soccorso e lotta ai trafficanti». Lo afferma il procuratore nazionale Antimafia e antiterrorismo, Franco Roberti, in un’audizione al Comitato Schengen. E rilancia la richiesta avanzata dal procuratore di Catania, Carmelo Zuccaro: a bordo delle navi delle Ong devono poter salire ufficiali di polizia giudiziaria per fare gli accertamenti, «come condizione per poter operare», altrimenti non si contrastano i trafficanti di uomini. Il procuratore nazionale chiarisce cosa avviene quando i barconi partono dalla Libia. «Si staccano dalle coste — dice Roberti — e subito trovano a raccoglierli le navi delle Ong, che svolgono una funzione supplente di quella governativa. Oggettivamente, al di là di possibili connivenze con i trafficanti, fanno un lavoro necessario. Il punto è che le Ong dovrebbero accettare di adeguarsi alle linee guida che noi abbiamo pubblicato, accettando di far salire a bordo un ufficiale di polizia giudiziaria che, senza intralciare le operazioni di soccorso, possa fare il suo lavoro».
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