Il bilancio di Recchi: «Telecom? In Italia investe 4 miliardi l’anno»
Il presidente: Persidera, non ci hanno chiesto nulla. Il giorno di de Puyfontaine
In questi tre anni il gruppo è diventato più competitivo. Servono orizzonti lunghi
Presidente, Vivendi le ha già chiesto di rimettere le deleghe?
«Guardi, è il consiglio di amministrazione ad attribuire le deleghe e le cariche — risponde il presidente di Tim Giuseppe Recchi, a poche ore dal board che dovrebbe sancire il passaggio di consegne al vertice con il ceo di Vivendi, Arnaud de Puyfontaine —. Ho sempre detto che un manager è al servizio dell’azienda e qualunque mia decisione sarà nell’esclusivo interesse di Tim».
Quindi oggi potrebbe celebrare l’ultimo consiglio da presidente. Come è cambiata Tim dall’era Telefonica a quella di Vivendi?
«E’ cambiata molto. In tre anni abbiamo ridato a Tim quello smalto e quel ruolo che le competono, sia dal punto di vista dei risultati economici sia industriale e di immagine. Io ho passato 12 anni alla General Electric e lì ho imparato quanto sia fondamentale rispettare il budget, i piani e la creazione di valore per gli azionisti. Consideri che negli ultimi 10 anni l’azienda non aveva mai centrato un obiettivo del piano e Tim era caratterizzata da risultati in costante calo. Era percepita quasi come un freno allo sviluppo del Paese più che il suo abilitatore naturale».
E oggi?
«A partire dal 2014 abbiamo deciso di intraprendere un percorso di investimenti per accelerare la diffusione della banda ultralarga, confermato e rafforzato ulteriormente negli anni successivi: oggi siamo il primo investitore in Italia con capitali privati, investiamo circa 4 miliardi all’anno, 11 miliardi nel triennio 2017-2019. E i risultati ci stanno dando ragione: dal 2014 a oggi la copertura in banda ultralarga fissa è più che raddoppiata, passando a oltre il 65%. Più di 16 milioni di case dispongono di velocità da 30 a 1000 mega al secondo e vantiamo oltre 13 milioni di km di fibra ottica posata. Abbiamo anche radicalmente cambiato l’immagine percepita dell’azienda con una campagna pubblicitaria diventata virale».
Prima non era possibile ottenere questi risultati?
«Mancava la cultura e forse la tranquillità necessaria a focalizzarsi sul business e sulla crescita. Ora questa cultura c’è e si vede anche nei numeri».
Dipende anche dall’arrivo di Flavio Cattaneo come ceo?
«Il consiglio precedente ha valutato la necessità di creare una discontinuità e in questa linea ha ritenuto di voler individuare un nuovo amministratore delegato. La discontinuità è da intendersi anche in senso culturale, portato da Cattaneo grazie alla sua esperienza nei turnaround e nel mondo dei contenuti».
E Vivendi, quale contributo sta dando alla crescita?
«Vivendi ha una strategia che punta alla costruzione di un gruppo media europeo, capace di creare contenuti competitivi. Dobbiamo partire dal fatto che nel mondo le prime 30 società di produzione di contenuti sono americane o cinesi. In Europa non ci sono e Vivendi persegue l’opportunità, vuole quindi competere con i big e le major nella creazione di contenuti. In Tim sono entrati come investitori industriali e di lungo termine dando nuove prospettive di crescita. E questo non può che essere una buona cosa per l’Italia e per Tim, che è un’azienda italiana, con personale italiano e focalizzata sul mercato italiano».
Il futuro di Tim è nella tv?
«Il nostro settore sta andando indubbiamente verso la convergenza e i contenuti. L’attività core di Tim è vendere connettività. Il video e più in generale i contenuti servono a offrire quei servizi necessari a fidelizzare i nostri clienti anche attraverso le piattaforme Tim Music e Tim Vision».
Persidera, la società che Vivendi vi chiederà di vendere per poter ottemperare alle disposizione dell’Ue, è strategica per questo disegno?
«Come già comunicato, nessuno ci ha chiesto nulla e oggi non lo abbiamo all’ordine del giorno».
La rottura tra Vivendi e Mediaset pregiudica il piano per la media company?
«La vicenda Mediaset-Vivendi non ci coinvolge. Tim è un brand forte, con una rete eccellente, un piano di investimenti sostenibile e oltre 40 milioni di clienti, fra fisso e mobile. In un mercato in cui i contenuti diventano sempre più importanti, le telco sono dei distributori naturali».
In passato si è parlato molto di un dialogo difficile tra voi e il governo. E’ così?
«Tim è indubbiamente un’azienda strategica per il Paese, tuttavia spesso ci sono visioni diverse tra la politica e le imprese, in particolare sulla sostenibilità economica degli investimenti. Le aziende hanno degli orizzonti lunghi e la necessità di sviluppare business plan sostenibili nel tempo. La politica, invece, ha spesso orizzonti più brevi. Posso dire che da quando sono presidente di Tim, il gruppo non ha costruito cattedrali nel deserto ma ha lavorato seriamente per sviluppare la banda larga nel Paese, in linea con l’agenda digitale del governo. Ogni epoca, poi, ha le sue sfide e quello che conta rimane il saper leggere il futuro e agire bene nel presente senza sprecare energie nelle riletture e recriminazioni del passato».